In Utero, di Gianluca Morozzi

La perfect edition del classico racconto morozziano sulle deprecabili abitudini alimentari e sulle pratiche di ricongiungimento familiare di Mornau.
Un horror di periferia godibile da chi non conosce il racconto, ma anche da chi lo ha imparato a memoria e si è pure fatto tatuare il simpatico demonietto su un braccio.
Infatti, non è la storia Mornau (comunque miglior attore non protagonista), ma di Nikos, un ragazzo, un uomo mai cresciuto fino in fondo, costretto dalla sorte e dall’inettitudine a vivere con la madre vedova in un miserando paesino dove lo sport più praticato è inseguire sogni irraggiungibili e farsi inseguire sempre più da vicino dal fallimento.
Nikos fa o vuole fare lo scrittore, ma a parte questo non differisce troppo dai suoi compaesani. È uno come noi, cristallizzato nel tempo delle possibilità sfuggite, che ci prova ma proprio non ci riesce, e questo ce lo rende subito simpatico, specie quando attorno a lui cominciano a succedere cose strane, cose pericolose, cose che attendevano solo il momento giusto per svegliarsi e palesare la propria presenza in modi dolorosi e/o imbarazzanti.
È così che l’orrore di una vita insulsa tira a sorte con l’orrore che ci attende oltre ogni razionalità, per l’anima e la carne di Nikos, il quale, molto umanamente, della sua vita controlla ben poco, figuriamoci della sua salvezza o dannazione.
Veloce, divertente, inquietante. Tra la prima e la quarta di copertina di In Utero, Morozzi non si preoccupa di mandare in contraddizione il lettore, che sorride alle miserie altrui, si arrapa e va in bianco per le premesse mai soddisfatte, si accanisce pagina dopo pagina, col fiato sospeso tra un breve capitolo e l’altro, per scoprire se a impegnarsi di più a rovinare la vista degli uomini sia la vita o siano gli uomini.

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