Una fiaba inconsueta, ma che riprende quasi con nostalgia i momenti narrativi più classici e li interpreta con motivi personali e colmi di delicatezza.
C’è una prospettiva di grandezza iniziale frustrata da una clausura, emotiva in questo caso. Una torre immaginaria di cui di vengono descritti i muri portanti assieme ai principali elementi del paesaggio sentimentale della protagonista.
C’è la magia, la metamorfosi, la catalessi incantata in attesa del risveglio.
C’è il “vissero felici e contenti” in un “per sempre” che è dato da un susseguirsi di istanti irripetibili perché vissuti nella consapevolezza e non nell’illusione.
Partiamo in una realtà che nulla ha di fiabesco, a chiederci se sia l’attitudine a voler rendere felice gli altri, ad accontentarli sempre, a voler essere considerati ad aver portato da ragazza che ci fa da specchio alla sua vita mediocre, non sbagliata, solo non sufficiente a essere felice lei stessa.
Ci si concede questo dubbio, quello che non ci si concede è il tempo di guardare la propria vita e cercare una risposta, che forse è tutta riassunta in una piccola metafora floreale della fragilità umana, il gesto tanto romantico quanto violento di strappare i petali di una margherita in un pietoso “m’ama, non m’ama”, riponendo nella perdita costante le proprie speranze di una relazione reale e corrisposta che accomuna nel vuoto e nell’assenza entrambi gli esiti.
Margherita, la protagonista, in una condizione improvvisa e inaspettata che la obbliga a guardare senza poter agire, scopre l’importanza di comunicare per essere, provare un sentimento e vederlo realizzarsi nell’esprimerlo.
Qui l’autrice non cade nella trappola di moralizzare le situazioni relazionali, né tanto meno in quella di esprimere un giudizio etico sulle esperienze della protagonista, molto simili a quelle di ognuno di noi.
La morale era già nel titolo, Margherita e punto, perché è tutto ciò di cui ha bisogno per essere sé stessa.
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