
Un silenzio carico di tensione gravava sul salone principale del castello di Camelot, costringendo tutti i presenti a rimanere immobili. Oltre cento cavalieri, con le loro famiglie, riuniti alla corte del Pendragone per festeggiare la Natività e il nuovo anno, erano con fiato sospeso in attesa del volgere degli eventi. L’unico rumore era il respiro pesante e affannato del Re, Arthur, seduto, quasi riverso a terra, con la preziosa tunica azzurra macchiata di cremisi. Il palmo della mano premuto su una profonda ferita al fianco non riusciva a fermare il sangue che sgorgava copioso spargendosi a terra. Davanti a lui, a non più di una pertica di distanza, con la punta infissa nel pavimento, la spada mistica simbolo del suo potere vibrava di una luce chiara e argentina.
Gli ospiti avevano assistito con sgomento al colpo che aveva disarmato il loro re ferito, la lama argentata era volata per aria e, dopo alcune rotazioni, si era piantata per la profondità di un palmo nel terreno, mentre il suo legittimo possessore cadeva per la forza dell’impatto.
L’attenzione del re era però rivolta appena oltre l’arma; dal basso delle sua posizione supina, fissava con sguardo ardente e privo paura, il suo gigantesco avversario.
Si ergeva in mezzo al fiore dei cavalieri del regno come un soldato veterano in mezzo a dei fanciulli, superava di un testa anche Lamorak, il più imponente fedele di Arthur, il suo aspetto non aveva nulla del raffinato e delicato decoro ricercato dagli altri presenti per i loro vestiti della festa: la stazza imponente coperta da una tunica verde scuro, di taglio popolare, fatta di canapa grossa o un altro tessuto grezzo, lunga fino al ginocchio, la pelle, visibile sulle braccia e le gambe muscolose era scura e callosa, come cuoio invecchiato, le unghie somigliavano a ghiande di quercia, sulla schiena indossava un mantello bruno, coperto sul collo e le spalle da una pelliccia orso, ai piedi aveva un paio di sandali consunti, nell’alta cintura era infilato un lungo coltello da caccia con il manico in corno di cervo.
Se ne stava eretto, immobile e imperscrutabile, il volto nascosto dietro un elmo pentolare di metallo brunito; nonostante la grossa ascia bipenne che stringeva nella mano destra, non sembrava intenzionato a infierire sul suo avversario, né preoccupato degli uomini che lo circondavano, la cui fama di guerrieri indomiti travalicava i confini della Britannia.
Tre delle guardie di palazzo, le uniche in assetto da battaglia durante i solenni festeggiamenti, si avvicinarono con le lance puntate alle sue spalle. Il colosso ruotò il busto e la testa per osservarli dalle fessure dell’elmo, poi tornò a guardare Arthur.
«Ameraudur – disse con voce cavernosa – i tuoi uomini sono pronti a morire per te, ma non è per prendere le loro vite che sono venuto.»
Il re – “imperatore”, come lo aveva chiamato il guerriero in un dialetto dimenticato dai più – riuscì a rimettersi in piedi con una smorfia di dolore e a fronteggiare l’avversario.
«Giungi alla corte di Camelot non invitato, valoroso cavaliere, e nulla mi è noto di te se non che brami la spada che mi fu donata dalla Dama del Lago.»
L’altro fece un passo avanti e si piegò per impugnare la spada infissa al suolo, poi la sollevò davanti sé.
«Arthur, Figlio dell’Orso, hai dimenticato il tuo passato e la fonte del potere che ti sostiene. Io sono il Bredbeddle e sono venuto a reclamare ciò che è mio dovere difendere.»
Bredbeddle. Il nome risuonò come un sussurro diffuso nella sala. Chi era abbastanza anziano da aver appreso dai propri nonni i rudimenti dell’antica lingua sapeva che l’invasore si era presentato come il “Cavaliere Verde”.
Nessuno osò muovere un muscolo quando il Cavaliere si girò a guardarli, ognuno sentì la potenza di quello sguardo sulla propria anima.
«Vi propongo una sfida. Uno di voi potrà colpirmi, una volta, io non mi difenderò. Se cadrò, le mie spoglie saranno vostre. Se non cadrò, mia sarà la spada che voglio e tra un anno esatto, chi mi avrà colpito si presenterà alla Cappella Verde affinché io possa restituire il colpo. Allora, se ne sarà in grado, potrà reclamare il suo premio.»
Arthur lo guardava ora fremente di rabbia. Tutti lessero nel suo sguardo di fiamma il disprezzo per quella proposta, che imponeva di macchiare l’onore di un cavaliere rifiutando una sfida o commettendo omicidio in un giorno sacro.
«Tu non puoi – disse il re – venire qui e…!»
«Io accetto!»
La voce che aveva interrotto le parole del sovrano proveniva da dietro le dame i cavalieri assiepati attorno ai due contendenti. La folla si spartì per lasciar passare un donzello dal passo fluido e deciso. Era un ragazzo alto, dal fisico slanciato e muscoloso, i capelli corti e dorati, come i ricami sulla sua tunica rossa. Tanto il suo aspetto e il suo portamento denotavano un grande valore, tanto il volto imberbe rivelava la sua giovane età, forse troppo giovane per la sua prima ferita di guerra.
«Gawayn, nipote mio – disse Arthur – Non sei obbligato, si tratta di un inganno.”
«Mio sire – rispose il ragazzo – non lascerò che la nobile Corte di Camelot sia tacciata di viltà di fronte ai vanti di un barbaro.»
Tornò a rivolgersi all’intruso.
«Accetto la tua sfida, Cavaliere Verde. Preparati.»
Il Bredbeddle abbassò lungo il fianco sia la spada, sia l’ascia che impugnava e rimase in attesa. Gawayn sorrise, fiducioso della propria abilità, e si fece consegnare da uno dei soldati di guardia una spada lunga un braccio. Serrò entrambe le mani sull’impugnatura e vibrò un paio di fendenti a vuoto per soppesarne il bilanciamento. Senza preavviso caricò i gomiti all’altezza del volto, fece una torsione del busto mentre puntava un piede avanti.
Il colpo fu violento, l’arma fischiò il suo canto di morte mentre fendeva l’aria fino ad incontrare il collo taurino del suo obiettivo. La lama si piantò nella pelle coriacea per quasi tutta la sua larghezza, facendo barcollare il gigante verde per la sola forza dell’impatto. Piantati i sandali sul pavimento, però, questi si erse di nuovo in tutta la sua imponenza.
Gawayn sembrava atterrito da quella dimostrazione di vitalità, provò a tirare fuori la spada dalla ferita dando dei violenti strattoni, ma tutto ciò che ottenne fu di far colare dal profondo taglio un icore denso e scuro, di colore solo vagamente rossastro, era incastrata, come il filo di una scure in ciocco di legno secolare. Poi l’elsa gli sfuggì di mano e rovinò poco nobilmente a terra.
Dopo alcuni istanti di silenzio, il Cavaliere Verde infilò la spada del re nella cintura, con estrema lentezza prese per la lama l’arma che ancora gli offendeva il corpo e la strappò con un grugnito sordo. Altro sangue resinoso colò dalla ferita, ma lui sembrò non curarsene. Si rivolse invece a Gawayn, che lo guardava sconvolto.
«Ricorda. Tra un anno esatto. Alla Cappella Verde.»
Detto ciò uscì dalla sala come vi era entrato, come una forza della natura, come un’apparizione, lasciando tutti nel dubbio di aver assistito a un’illusione delle fate. Le uniche prove a testimoniare che tutto si era svolto realmente erano la ferita al fianco di Re Arthur e quella all’onore del giovane Gawayn.
***
La muraglia di rovi cominciò a fremere come percossa da un vento impetuoso, anche se tutto attorno era quieto e l’aria stessa era immota. Il Bredbeddle passò attraverso i cespugli irti di spine senza riceverne alcun danno; avanzava con passo barcollante sotto le fronde dei giganteschi alberi secolari che intrecciandosi tra di loro formavano la volta della Cappella Verde. La spalla e il braccio sinistro erano coperti dell’umore scuro che usciva, a tratti zampillando, da una profonda ferita alla base del collo. Malgrado ciò continuava a incedere. Appena entrato lasciò cadere in terra l’ascia bipenne, mentre nell’altra mano stringeva ancora la spada presa a Camelot. Era a causa di quella che non poteva fermarsi, anche se sentiva le forze venirgli meno, doveva portare a termine il suo compito.
La cupola verdeggiante permetteva solo un’illuminazione crepuscolare dai riflessi smeraldini, sufficiente per distinguere il monolite di pietra chiara piantato al centro del circolo di alberi che fungevano da parete naturale Cappella. Attorno al punto ove era infisso emergevano a raggiera delle pietre bianche e regolari che formavano una piccola pavimentazione disomogenea. Al lato del menhir era poggiato un grande calderone di metallo nero, pieno di un liquido chiaro e puro che ribolliva lentamente e nel quale era immersa la lunga punta di una lancia, la cui asta svettava verso l’alto.
Il Cavaliere Verde mise piede sulle pietre bianche e si udì una debole eco vibrante, appena percettibile.
Erano molto lontani i tempi in cui la risata squillante della Pietra del Destino era udibile in tutte le contee quando un uomo degno ne calpestava il basamento. Tempi così lontani che il gigante faticava a ricordare ora che lampi bianchi di dolore gli offuscavano la vista e la volontà.
Ogni passo trascinato sul terreno era accompagnato da uno scricchiolio o da un schiocco, come di legna secca, ogni piccolo movimento portava il respiro pesante e affannato di una bestia ferita.
Le ginocchia cedettero proprio davanti la Lia Fáil, e il megalite, come se fosse un re di fronte a cui si fosse prostrato un suddito supplicante, tacque. Rimase silente finché il Bredbeddle non raccolse le forze per porgere la lama argentata avanti a sé su entrambi i palmi delle mani come un dono devozionale, poi un ronzio accompagnò la vibrazione, che salì di tono fino a risuonare nell’intera Cappella, per poi spegnersi quando il Cavaliere si accasciò al suolo, cosciente, ma del tutto privo di energie.
«Ben fatto, valoroso Cavaliere – disse una voce femminile, allo stesso tempo fredda e sensuale – La Lia Fáil ha cantato, la tua missione ha avuto successo, Caliburn è di nuovo al servizio del suo popolo.»
A quelle parole il corpo supino ebbe un sussulto.
«Ma la tua missione non è ancora finita.»
Con gesti rigidi e meccanici il Cavaliere si mise carponi.
«Lascia che ti aiuti.»
Mani bianche e curate, con le dita agili e affusolate, presero l’elmo e liberarono la testa coperta di fluenti fronde, fogli e tralci di vite.
«Il resto devi farlo da solo.»
Il Bredbeddle si avvicinò al calderone strisciando sui gomiti e sulle ginocchia.
«Per quanto possa essere difficile.»
Con un sforzo disumano si mise in piedi issandosi sul bordo della marmitta.
«Per quanto possa fare male.»
Si strappò di dosso i vestiti fino a rimanere nudo, poi prese la lancia e la tirò fuori dall’acqua gettandola in terra.
«Per quanto possa sembrare ingiusto.»
Con un verso animalesco si lasciò cadere dentro il pentolone. Era impossibile capire se fosse il calderone a ingrandirsi o il corpo a rimpicciolirsi, si adattarono l’uno all’altro, finché il Cavaliere non fu completamente sommerso dal liquido trasparente, in posizione fetale.
Da sotto l’acqua vide la sagoma di una donna uscire dall’ombra e sporgersi sopra di lui.
«I Doni sono stati riuniti e il Calderone dei Dagda ti sottrarrà alla morte. Gli antichi poteri non dimenticano i loro servitori, abbandonano solo chi li abbandona. Serve solo una vittima sacrificale e torneranno tra noi.
«Riposa, guarisci Bredbeddle, col nuovo anno questi insulsi uomini, con la loro piccola fede, si pentiranno di averci sfidato.»
Una lacrima biancastra, densa come resina, sgorgò dalla palpebra chiusa del Cavaliere.
***
Con sguardo perso nei ricordi, l’uomo d’età veneranda fissava oltre le protezioni lignee infisse sulle mura difensive; la barba e i capelli, lunghi e bianchi come pelliccia d’ermellino furono soffiati indietro da una gelida brezza e lui si strinse più forte addosso il mantello che lo copriva. Da lì riusciva a dominare con la vista tutta l’ampia radura al centro della quale si ergeva il castello, l’erba risplendeva ai raggi del primo sole d’inverno, mostrandosi agli occhi del suo signore come un lago dorato increspato dal vento. Oltre la radura la foresta si estendeva fitta e minacciosa fin dove l’occhio riusciva ad arrivare, senza che la luce del giorno riuscisse a dissipare le tenebre antiche che vi dimoravano.
Una donna, nobile nei modi e nell’abbigliamento, si mise di fianco all’uomo. Dimostrava la metà degli anni, poteva essere sua figlia: i capelli lunghi avevano il colore del miele, la pelle era chiara come il latte era priva di imperfezione e dei segni del tempo, solo gli occhi, di un verde intenso mostravano la determinazione e l’esperienza di un’età matura. Scrutarono assieme il paesaggio fino a che il disco solare non si fu elevato del tutto oltre l’orizzonte.
«Qualcosa ti turba, mio caro?» chiese la dama senza distogliere il volto.
«Il sole…» rispose l’uomo con voce fiera e pacata.
«Il sole è sorto anche quest’oggi, come fa ogni mattina. Gli uomini nella loro cecità vi si rivolgono a volte come un dio, a volte maledicendolo per il troppo calore, ma il sole presta loro ben poca attenzione e continua a svolgere il proprio compito, preoccupandosi di equilibri che sono quelli della natura, non delle creature meschine che gli lanciano contro improperi o preghiere.»
«Non credi che possa essere… stanco di tutto questo?»
Lei lo adocchiò con uno sguardo altezzoso e compiaciuto, che non venne ricambiato.
«Pensi forse che abbia scelta?»
L’uomo era assorto dal paesaggio e quasi non la udì.
«Fossi in te non mi preoccuperei del sole: presto avremo un ospite.»
Vide uscire dal bosco una figura umana che avanzava a passo malfermo attraverso la radura. Aveva una spada in mano, ma non sembrava in grado di fare realmente male a qualcuno, si girava spesso verso l’intrico della foresta, come se temesse di essere inseguito.
Quando l’uomo canuto distolse l’attenzione da quella scena si accorse che la donna se n’era già andata. Trasse un’ultima boccata d’aria frizzante e si girò con l’intenzione di scendere anche lui ad accogliere il nuovo arrivato, lasciando che il vento facesse svolazzare il mantello alle sue spalle.
Scese a passi misurati le scali che conducevano al cortile interno del castello, passò sotto l’arco che si apriva nelle mura e si mise a lato della donna, un passo avanti.
La figura, nel frattempo, si era avvicinata ed era riconoscibile come un cavaliere, sebbene le sue vesti rosse fossero lacere e insanguinate e la sua armatura dovesse essere passata attraverso mille battaglie. Il volto era quello di un giovane invecchiato rapidamente, bruciato dal sole e dalle intemperie, scavato dalla stanchezza e dal dolore, solcato da graffi e cicatrici recenti, i capelli biondi erano sporchi e cresciuti disordinati sulla testa. Trascinava una lunga spada dietro di sé, come se non fosse più in grado di sollevarla e un elmo ammaccato era stretto sotto l’altro braccio.
Si avvicinò a loro e si fermò alla distanza di un paio di pertiche, si prostrò su un ginocchio e chinò la testa.
«Mio Signore. Mia Signora. Mi chiamo Gawayn, sono cavaliere e nipote di Re Arthur di Camelot, da quasi un anno sono in viaggio per assolvere a una promessa fatta. Il vostro castello è apparso oltre una foresta popolata di fiere e di demoni in risposta alle mie preghiere. Vi prego: accoglietemi come vostro umile servo fino a domani, o cacciatemi via prima se ne sarò indegno.»
L’uomo sentì una commozione, un sentimento umano quasi dimenticato salirgli dal cuore, che gli ingentilì il volto fiero e lo spinse a muoversi con passo orgoglioso verso il giovane cavaliere e ad abbracciarlo come un padre stringerebbe un figlio disperso e ritrovato.
«Gawayn di Camelot – disse prendendogli le spalle con le mani – Io sono il conte Bercilak e questa è la mia consorte. Siete il benvenuto nel castello di Hautdesert. Dimoratevi come vi piace e per quanto tempo desiderate, come se ne foste il signore. Tutto ciò che è qui è vostro e potete disporne a vostro talento e discrezione.»
Nel dire queste parole non mancò di notare l’espressione fascinante che la sua signora riservava al nuovo ospite. Lui sapeva bene come gli occhi grandi e le lunghe ciglia serbavano un’autorità ben superiore a molti titoli nobiliari.
Non ci fu tempo per alcune reazione, poiché Gawayn si abbandonò a mesi di fatica incessante e svenne tra le sue braccia.
***
Bercilak de Hautdesert passeggiava nervosamente per la stanza con un vigore inusitato per un uomo della sua età, aveva il volto corrucciato, e camminava leggermente piegato in avanti per bilanciare le mani serrate dietro la schiena in una morsa nervosa.
«Ora che cosa dovremmo farne di lui? Eh?»
Parlava per lo più a se stesso. La castellana lo osservava seduta sul bordo del letto, limitandosi a muovere gli occhi da gatta, senza spostare le mani giunte in grembo o perdere il sorriso malizioso.
«Sarà nostro ospite finché lo vorrà?»
Il signore del castello si fermò e si rivolse alla donna con tono adirato.
«Ti prendi forse gioco di me?»
«Non è forse ciò che gli hai proposto stamane?»
«La mia pazienza ha un limite. Anche se sei tu non ti consiglio di abusarne.»
La dama si alzò e con passi eleganti si avvicinò all’uomo.
«Ecco lo spirito indomito che mi ha convinto a concedermi anni fa, ecco il guerriero selvaggio che in gioventù mi fece sua, ecco l’ultimo dei Fia…»
L’ultima parola si spense sulle labbra sorridenti allorché la mano rugosa e potente di Bercilak si strinse attorno a quella esile e diafana della dama.
«Non dire quella parola! Il mondo è cambiato da allora – distolse lo sguardo, con un moto di stizza e di vergogna – e io non sono più quello che ero…»
Quasi sentisse improvvisamente tutto il peso degli anni, lasciò la presa e camminò lentamente fino all’arco della finestra e si immerse nel paesaggio pomeridiano.
«Gawayn, non ha nulla a che fare con tutto questo, è troppo giovane.»
Mani delicate ed esperte si posarono sulle sue spalle ancora forti sebbene.
«Sapevamo del suo arrivo – disse la dama – dobbiamo comportarci di conseguenza”
«Vuoi dire ingannarlo.»
«Quegli uomini ingannano loro stessi, o pensi davvero che la verità corra tutta attorno a una Tavola Rotonda?»
«Penso che l’onore abbia ancora un senso. Nonostante tutto…»
I due ora si guardavano negli occhi, tra loro c’era una complicità velata da segreti e vincoli inestricabili.
«Nonostante quello che sei diventato?»
«Ho fatto le mie scelte, tu dovresti saperlo, e ne porto il fardello.»
«Come ha fatto Gawayn.»
Bercilak accarezzò con un gesto delicato la guancia e il mento della sua signora.
«Sei bella, proprio come raccontano delle fate.»
Poi lasciò ricadere la mano sul fianco.
«Ma anche le fate sbagliano.»
«Forse, ma se io mi sbaglio sarà tutto finito.»
L’uomo annuì pensieroso.
«Non potrai opporti per sempre al dominio di Arthur o di quelli come lui.»
La donna si fece travolgere dall’ira.
«Arthur non è il mio re!»
Un battito di ciglia dopo aveva ripreso il suo aspetto serafico.
«E poi non sono sola, ci sei tu al mio fianco.»
«Ti sei mai chiesta perché Nyneve abbia innalzato il suo braccio bianco oltre la superficie del Lago per porgergli la spada della luce? Lo avrebbe fatto se Arthur non ne fosse stato degno?»
La dama sembrò colpita da questa osservazione, ma non perso l’espressione disinvolta, si limitò a dare le spalle all’uomo e a incamminarsi verso la porta d’uscita.
«L’hai detto tu: anche le fate possono sbagliare.»
***
I cavalli trottavano appaiati lungo il sentiero ombreggiato che si perdeva nella foresta. Gawayn montava in silenzio un robusto baio dal passo fluido, mentre ascoltava con aria trasognante una vecchia ballata intonata da Bercilak, in groppa a un grande morello dall’andamento inquieto.
«Complimenti, mio signore – disse quando l’esecuzione fu terminata – La vostra voce non ha nulla da invidiare a quella di Taliesin il bardo.»
«Giovane amico, la cortesia ha imparato da voi l’arte di allietare un povero vecchio. Lo confesso, in gioventù mi dilettavo di canto e composizione, ma come molte altre cose fa parte del passato.»
La nota di tristezza in queste ultime parole impose qualche momento di silenzio, rotto da Gawayn.
«Ancora non vi ho ringraziato a dovere per avermi accolto e soccorso, ditemi come posso sdebitarmi.»
«Fate un torto all’affetto che provo per voi. Non ho figli… non più. Avervi qui risana le mie ferite e nutre le mie forze. Se volete ripagarmi fate con me questo patto di amicizia.»
Bercilak fermò il cavallo e allungò la mano verso l’altro.
«Avete detto che un debito di onore vi costringerà a lasciare Hautdesert fra tre giorni, fino ad allora io vi donerò quanto riuscirò a cacciare ogni giorno e lo stesso farete voi con me.»
Il giovane sorrise e strinse la mano che gli veniva porta.
«Bene! – disse l’uomo – ma non perdiamoci in chiacchiere, la selvaggina non attende.»
Detto ciò diede di sprone al suo cavallo nero e sfrecciò tra gli alberi con una tale rapidità che ben presto perse di vista Gawayn.
«Mi dispiace figliolo» pensò.
Senza rallentare aggirò le sponde di un piccolo stagno fino a portarsi alla riva opposta. Celato dalla fitta vegetazione smontò di sella senza dar mostra dell’anzianità ostentata fino a poco prima, si tolse uno dei pesanti guanti foderati di pelo e posò il palmo nudo sul terreno quasi ghiacciato. Il sottobosco cominciò a tremare all’unisono con i suoi respiri nebbiosi e dalle radici dei cespugli emersero centinaia di serpenti che gli si radunarono attorno, con la devozione di piccoli sudditi che si radunano ai piedi del proprio signore per essere protetti da un imminente pericolo. Le foglie, i rami e la stessa terra vibrarono con un ritmo sibilante e continuo presagendo l’arrivo di qualcosa di più grande.
«Lord Bercilak! – gridò ancora Gawayn – Dove siete?»
La foresta però rimaneva silenziosa e immota, come la superficie dello stagno dove era arrivato cercando di seguire l’anziano signore di Hautdesert. Tese l’orecchio e l’unica cosa che udì fu un sibilo in avvicinamento. Il secondo di troppo che impiegò per identificare quel suono permise all’enorme serpente di sbucare all’improvviso davanti al muso del baio. Il cavallo nitrì terrorizzato e si impennò gettando il cavaliere a terra, prima di fuggire lungo il sentiero che riportava al castello.
Era un rettile spaventoso degno del nome di drago; Gawayn non dubitò un attimo che sarebbe stato in grado di ucciderlo con un morso, o stritolarlo, o addirittura ingoiarlo intero. Provò ad alzarsi in piedi, ma la caviglia cedette sotto il suo peso procurandogli un dolore lancinante. Il serpente nel frattempo scattò in avanti con le fauci spalancate e solo la prontezza di riflessi del ragazzo fece sì che mordesse l’aria. Attaccò ancora, contorcendosi su se stesso, e ancora, fermato da un calcio sul muso. Gawayn indietreggiava strisciando sull’unica gamba agile, il serpente ormai lo sovrastava, togliendogli ogni possibilità di difesa. Scattarono all’unisono: il mostro protendendo in avanti la testa a forma di lancia e l’uomo sfoderando la spada e abbattendola con un unico arco sul cranio del nemico.
Il serpente stramazzò sull’erba; nonostante fosse diviso in due fino al collo per la buona misura di un braccio ancora si dimenava, ormai innocuo.
Bercilak sopraggiunse dal bosco e smontò dal cavallo ancora in movimento.
«Gawayn! Cosa è successo?»
«La caviglia – disse il ragazzo madido di sudore appoggiandosi al nobile per tirarsi in piedi – Credo di aver preso una brutta storta.»
«Salite sul mio cavallo e torniamo al castello. Abbiamo bisogno di riposo. Penseremo domani alla caccia.»
Bercilak diede un’ultima occhiata al luogo dello scontro, guardò il corpo agonizzante del grande serpente con la freddezza di un profondo dolore trattenuto ed ebbe l’impressione di vedere un’ombra, una sagoma sinuosa, ferma dall’altra parte dello stagno: una visione che scomparve non appena batté le palpebre.
***
Con un fischio sordo la freccia si piantò in mezzo all’erba, non più lontano di un palmo dalle zampe posteriori di una magnifica cerva. L’animale si voltò con uno scatto del collo verso il cacciatore e l’istante successivo già correva a perdifiato nella foresta. Altre frecce furono scagliate durante l’inseguimento, mentre la preda saettava tra le ombre del sottobosco, l’inseguitore a cavallo incoccava i dardi senza lasciargli un attimo di tregua, spingendola a scappare sempre più nel folto del cuore antico della foresta. Bercilak smise di tendere l’arco solo quando gli alberi lasciarono il posto a una vasta radura dominata da una presenza imponente, il cui solo aspetto era capace di evocare realtà tanto luminose e trascendenti, quanto selvagge e brutali.
Al centro dello spiazzo erboso c’era un cervo che lo fissava, era maestoso nella sua imponenza: alto al garrese quanto la spalla di un uomo, la testa e il manto striati di bianco, le corna ramificate grigie come la pietra levigata. La cerva era fuggita, lasciandoli soli.
L’uomo scese da cavallo, ripose l’arco lungo la sella e si inoltrò attraverso l’erba alta della radura con le mani vuote avanti a sé per mostrarsi disarmato.
«Fratello mio – disse – molti sono gli amici e i familiari che hai accompagnato nell’aldilà. Ora ti chiedo di accompagnare me in questo ultimo gravoso viaggio.»
Il cervo si mosse nervoso, mostrando prima un fianco poi l’altro, senza per indietreggiare.
«Non è come avversario che vengo da te oggi. Non è portando con me dolore che violo il tuo santuario. Lascia che il mio cuore si apra a te per mostrarti l’esito di questa caccia.»
Bercilak accarezzò il muso solcato da molte cicatrici, sorrise malinconico e abbracciò il collo muscoloso dell’animale, lasciando che poggiasse la gola sulla sua spalla.
Rimasero a lungo in quella posizione, finché le ombre non cominciarono ad allungarsi. Solo un lieve sussulto del cervo ruppe l’incanto, poco prima che una voce umana parlasse rotta dal pianto.
«Un nuovo sole è sorto e il mondo ha visto rosseggiare una nuova alba: ogni sacrificio possibile deve essere fatto per evitare che ricada nelle tenebre.»
Il conte si staccò dall’abbraccio, la sua mano destra era lorda di sangue, così come il manto bianco sul petto del cervo, un manico di corno spuntava dal pelo imbrattato, lì dove la lama di un coltello da caccia aveva perforato il cuore.
La bestia provò a fare un passo avanti, la testa ciondolava per il peso delle corna e le zampe erano malferme.
«Non lascerò che tu viva l’onta di dover cadere a terra – disse Bercilak tra le lacrime – morirai come muore un re, eretto di fronte al destino e alla morte.»
Dicendo questo sfoderò una lunga spada dalla lama argentata e rilucente e con un colpo dall’alto in basso spiccò la testa cornuta; un taglio nettò che cauterizzò la ferita: non ci fu altro spargimento di sangue.
Di ritorno al castello trovò ad attenderlo la sua dama e Gawayn. Senza dire nulla andò dal giovane cavaliere e gli offrì in dono la testa del grande cervo. In risposta al patto fatto tra loro ricevette un bacio da Gawayn, che non aggiunse altra spiegazione e si ritirò nella stanza che gli avevano assegnato.
Il silenzio regnava ancora nel cortile. Bercilak non aveva molti dubbi sul significato di quel bacio, né poteva lasciargliene alcuno il sorriso di derisione con cui si congedò da lui la signora di Hautdesert.
***
«Continua a correre – ripeteva Bercilak nella sua mente – Non fermarti.»
Correva senza sosta nella foresta da un tempo che gli sembrava interminabile, ore sicuramente, troppo per chiunque e anche il suo innaturale vigore si stava esaurendo. Alle sue spalle continuava a sentire il rumore di terra calpestata e di arbusti divelti con violenza.
«Continua a correre!»
Fermarsi a quel punto avrebbe significato morte certa. Il dio selvaggio che lo inseguiva era furioso e non avrebbe frenato la sua carica prima di aver infierito sul suo cadavere. Quanti dei suoi figli aveva dovuto uccidere quel solo giorno per farlo uscire allo scoperto? Aveva perso il conto. Alla fine il padre ancestrale aveva risposto alle preghiere dei suoi cuccioli morenti e si era presentato per riscuotere la sua vendetta.
Non lo aveva nemmeno visto arrivare, la terra aveva tremato e un attimo dopo una massa enorme si era abbattuta come un fulmine sul fianco del suo cavallo, uccidendolo sul colpo e quasi straziandolo in due. Lui era stato sbalzato in aria perdendo tutto il suo armamento e non gli era rimasto altro da fare se non fuggire.
Sebbene il suo avversario abitasse già quei boschi quando un uomo uccise per la prima volta un suo simile, era da molto tempo che non li visitava in quella forma, mentre Bercilak li conosceva in maniera profonda e dettagliata. Sapeva dove stava andando e dove voleva far concludere la fuga. All’improvviso davanti a lui non vedeva più il bosco, ma il cielo aperto; continuò a correre fino alla punta estrema del promontorio e si voltò: su quella sporgenza rocciosa il suo aggressore avrebbe dovuto scegliere se caricarlo, rischiando di cadere di sotto per l’impeto, o se attaccarlo in altro modo, dandogli maggiori possibilità.
L’idea di incontrarlo faccia a faccia lo eccitava e allo stesso tempo lo terrorizzava.
Il cinghiale emerse dalla vegetazione portando con sé l’odore della morte, gli occhi piccoli, infossati e iniettati di sangue promettevano una fine dolorosa per opera delle zanne giallastre che si incurvavano ai lati del muso. Era enorme, con il manto grigio incrostato di fango e segnato da piaghe.
«Siamo solo due sciocchi – gridò Bercilak sorridendo mentre riprendeva fiato – che non vogliono arrendersi a ciò che sono diventati: vecchi.»
L’antico verro sembrò ricambiare con una grottesca piega delle labbra e un grugnito, quasi una smorfia d’intesa, poi raspò il terreno con la zampa anteriore e caricò a testa bassa.
Bercilak non riuscì, come aveva sperato, a schivare del tutto l’attacco fulmineo: un profondo taglio gli si apri sotto lo sterno, dove la zanna affilata morse la carne, e finì a terra. La bestia non perse l’occasione gli saltò addosso per cercare di mordergli la faccia.
In quel momento l’uomo gli si aggrappò a un orecchio per deviare il muso e scivolando di lato andò a serrare le braccia in una morsa attorno al collo. Rotolarono in quella posizione fino al ciglio del precipizio. Il cinghiale si dimenava per rompere la presa, ma attingendo a una forza sovrumana Bercilak strinse sempre più forte finché non sentì il collo spezzarsi sotto la pressione dei suoi muscoli. La lotta era finita, aveva vinto, ora poteva urlare tutta la sua rabbia e la sua frustrazione.
Tornato al castello ricevette due baci da Gawayn. Non sapeva se era un modo della dama di Hautdesert per fargli odiare il giovane cavaliere che invece tanto amava, era troppo stanco per porsi simili domande. Domani lo attendeva un’altra caccia. Si limitò a guardare la testa mozzata del cinghiale, gettata sul selciato del cortile come il più vile dei doni.
***
Il muro di legno e foglie gli scorreva davanti mentre girava su se stesso alla ricerca del suo nemico. Il respiro di Bercilak era lento e controllato, non poteva concedersi nessuna disattenzione, ogni minimo rumore o spostamento d’aria poteva indicargli la presenza del perfido demone a cui stava dando la caccia. Anche se negli ultimi minuti la situazione sembrava essersi invertita.
Dietro di lui, un fruscio tra i cespugli. Si girò di scatto, veloce come una freccia e eppure troppo lento per il suo aggressore: sentì una fitta di dolore al polpaccio che lo costrinse in ginocchio, vide appena una scia rossastra allontanarsi da lui e immergersi nella boscaglia.
La ferita era profonda, un morso stretto e lungo che aveva passato il cuoio degli stivali e aveva scalfito la carne. Altre sei chiazze scure sul suo corpo testimoniavano altrettanti attacchi andati a buon fine. Valutò che non sarebbe arrivato a dieci.
Si rimise in piedi aiutandosi con la lunga lancia che teneva in mano e tornò in ascolto e in osservazione.
Davanti a lui comparve all’improvviso una volpe dal manto rosso fuoco, era seduta, sarebbe potuta sembrare in atteggiamento pacifico se non fosse stato per il ghigno mostruoso impresso sul muso, un sorriso diabolico da cui spuntavano denti ricurvi come uncini d’osso grondanti bava e sangue. Con la stessa rapidità con cui era comparsa, la bestia corse in avanti, così veloce da confondersi in un’indistinta macchia di colore.
Il cacciatore provò a reagire, ma era troppo lento, uno squarcio gli si aprì alla giuntura del gomito destro ancor prima che riuscisse a sollevare del tutto la lancia e l’arma cadde a terra, non più sostenuta dal braccio ormai inerte.
Era di nuovo solo. Raccolse la lancia con la mano sinistra e la tenne alta sopra la spalla, come se si preparasse a scagliarla e aspettò, ricordando a se stesso che ogni ricerca richiede sacrifici.
Un morso non tardò a ledergli le reni lasciando una ferita slabbrata e umida. Bercilak non cercò, come le altre volte, di individuare l’avversario o di contrattaccare, si limitò a gridare.
«Ibar!»
La lancia fremette nel suo pugno e si mosse nell’aria costringendolo a ruotare su se stesso prima di lasciare che l’asta volasse verso il suo bersaglio.
Si piantò nel tronco di una grossa quercia con un rumore sordo. Inchiodata alla corteccia pendeva la volpe, priva di vita. La punta che le trapassava la gola era accesa dal rosso luminoso del metallo incandescente.
«Arthibar!» gridò ancora.
La lancia si staccò dal tronco, lasciando cadere in terra la vittima, e tornò di slancio nella mano del suo proprietario.
Bercilak poggiò con cura l’arma su un masso sporgente, estrasse dalla cintura il coltello dal manico di cervo e si diresse verso la carcassa dal pelo rosso.
***
Le viscere della volpe erano sparse sul piatto di foglie secondo un intricato disegno, su un piccolo fuoco poco distante bruciavano le erbe sacre spargendo piccole volute di fumo grigiastro e acre. Una figura nuda, seduta a gambe incrociate, alzò una piccola ciotola di legno sopra la sua faccia con un gesto votivo; inclinando il mento verso il cielo lasciò che il liquido in essa contenuto gli cadesse in gola. Poi attese.
Sopra di lui un falco descriveva cerchi sempre più larghi alla ricerca di qualcosa, l’uomo lo guardava volare, affascinato, poi incantato, catturato dagli schemi naturali disegnati dal passaggio d’ali nell’aria.
Poco dopo Bercilak non era più Bercilak, non stava più guardando il falco, era il falco, e guardava il suo corpo immobile sull’erba. Volava superando nel vento percorsi terreni che ben conosceva e che lo avrebbero portato al castello di Hautdesert, verso la torre ovest, dove alloggiava il nuovo ospite, a guardare dalla finestra della sua stanza da letto, a udire cosa avveniva al suo interno.
Gawayn era in ginocchio al centro della stanza, teneva la spada con la punta poggiata sul pavimento, rivolgendosi a essa come a una croce. Stava pregando.
Rimase immobile quando l’ombra di una donna si allungò alle sue spalle coprendo la poca luce derivante da alcune candele.
«Pregate, cavaliere?» disse lady Bercilak con un sussurro.
«Prego per la mia anima, madonna. Domani andrò in contro al mio destino e terrò fede al giuramento fatto.»
La dama gli si mise davanti e con una carezza sotto il mento lo invitò ad alzarsi.
«Non dovete temere il disonore, Gawayn di Camelot.»
«Provo una grande vergogna – non riuscendo a sostenere lo sguardo della donna, distolse il suo – La mia fede vacilla, temo la morte quanto il disonore.»
Lei gli prese la faccia tra le mani e lo costrinse a guardarla negli occhi.
«Siete valoroso. E leale. Obbedite alla vostra signora e indossate questa cintura.»
Così dicendo porse a Gawayn un’alta cintura verde realizzata con la pelle di un serpente; grosse scaglie emettevano riflessi verdastri e smeraldini alla luce delle candele.
«Vi renderà invincibile.»
Il ragazzo prese la striscia di cuoio con una certa titubanza, quasi gli venisse chiesto di ricevere un dono sacrilego.
La dama gli avvicinò le labbra all’orecchio per sussurrare qualcosa
«Indossala.»
Gawayn strinse la cintura attorno alla vita e un attimo dopo lei lo abbracciò al collo e lo baciò. Per tre volte. Lui non oppose resistenza.
***
I passi di Bercilak risuonavano in tutta l’ala del castello, pesanti e veloci, si accordavano con la faccia tesa e i pugni chiusi per la rabbia.
Tre baci. Aveva ricevuto tre baci da Gawayn in cambio della pelliccia di volpe riportata dalla caccia.
«C’è altro?» gli aveva chiesto.
Ma il cavaliere aveva distolto il viso da un lato con espressione triste, quasi di vergogna.
«È l’alba – aveva detto con un filo di voce – Devo recarmi al mio appuntamento.»
«Aspetta!»
Il conte aveva stretto l’avambraccio del ragazzo per trattenerlo, ma questi si era divincolato senza alcuna fatica. C’era stato qualcosa di fatato nei suoi movimenti e c’era ancora mentre lo osservava allontanarsi, una sorta di riflesso smeraldino che variava in base a come riflettevano la luce le scaglie della cintura di serpente che gli cingeva la vita.
Mentre solcava il corridoio ripensava agli ultimi giorni, aprì la porta deciso ad affrontare la causa dei tragici eventi di cui era stato e sarebbe stato testimone.
«Morgana! » gridò spalancando la porta di una stanza privata.
La dama dai capelli color miele e la pelle eburnea era seduta su uno sgabello intarsiato intenta a ricamare. Alzò il mento delicato e sorrise.
«Qualcosa ti turba, mio signore?»
«Morgana le Fay, non prenderti gioco di me!»
«Sei triste perché il nostro ospite ci ha lasciato?»
«Ben lo hai ricompensato per la sua presenza, vero?»
La donna si alzò, lasciando il panno ricamato sul cuscino dello sgabello.
«Gli ho solo dato una speranza di salvezza. Non è forse per quello che si inginocchia di fronte al feticcio del suo dio morto?»
«No, tu gli hai rifilato solo un inganno a buon mercato. I tuoi erano i baci di un serpente.»
«Gli ho dato il coraggio di confrontarsi con il Bredbeddle.»
«Quale confronto? Non ci sarà nessun confronto, andrà solo a farsi ammazzare. Ma non lascerò che tu scateni quel mostro per uccidere Gawayn!»
Morgana si mostrava sorpresa e divertita.
«Tu pensi di potermi fermare?»
Bercilak tacque per un istante.
«Penso di poter fermare lui – disse alla fine – Per sempre.»
«Sciocco, perderesti tutto ciò per cui hai lottato in tutto questo tempo perché quel cavaliere ti ricorda tuo figlio? È solo un’illusione. Tu stesso sei un illusione.»
«No, io sono un uomo, Morgana! Ricordatelo!»
«Io ricordo, Bercilak, ricordo più di quanto tu possa pensare. Ricordo un uomo, un guerriero, il Rigfénnid. L’ho osservato cavalcare alla testa di un gruppo di combattenti nobili e valorosi, esperti nell’arte della battaglia, quanto nella musica e nella poesia, con i capelli raccolti in una lunga treccia. Ho gioito con lui quando il suo unico figlio, ormai un guerriero, ha preso posto al suo fianco. Mi sono disperata con lui quando i seguaci di un dio lontano gliel’hanno portato via. Un manipolo di eroi sommersi dalla marea di un esercito di ciechi e avidi usurpatori. L’ho visto impazzire, lui, unico sopravvissuto all’ecatombe, l’ultimo dei Fianna, e folle l’ho ascoltato rivolgere preghiere strazianti alla Grande Madre e offrire sacrifici all’imperscrutabile Cernunnos; tutto per poter avere il tempo di vendicarsi.
«Io ricordo, Bercilak, perché lo spirito della Dea vive in me. Lo hai chiesto, e quel tempo ti è stato dato. Quel tempo è arrivato.»
***
La Cappella Verde si ergeva sopra un’altura tondeggiante a ridosso della parete rocciosa di un’alta collina, incorniciata dalla curva di un torrente che scorreva lì di fianco.
Fermo alla base del poggio, Gawayn osservava la perfetta composizione di alberi e roveti secolari che costruivano la struttura della Cappella, tempio sacro alla natura non edificato dall’uomo.
Ne rimase così affascinato e conturbato da riuscire a notare solo in un secondo momento la presenza imponente che torreggiava davanti a un’apertura nel muro di spine e rami. Era il Cavaliere Verde, così come la ricordava dal loro incontro di un anno prima e identico a come gli era comparso in sogno ogni notte da allora. Ogni notte, al risveglio, tutto ciò che ricordava era un violento colpo d’ascia che gli spiccava la testa dal busto: la stessa ascia che il gigante stringeva nel pugno.
Passò la mano sulla rassicurante superficie irregolare della cintura che aveva sui fianchi.
«Bredbeddle – gridò – Sono qui!»
Il Cavaliere Verde non rispose, gli diede le spalle e si infilò nella vegetazione sparendo alla vista.
Gawayn attraversò i rovi come se fossero un miraggio, non lo ferirono, né lo ostacolarono in alcun modo, e si trovò ad ammirare l’interno della Cappella Verde, uno spettacolo mistico e trascendente per chiunque fosse sensibile alla bellezza della natura incontaminata. Attraverso i rami fronzuti della volta filtravano come dal rosone di una cattedrale spiragli di luce che diffondevano ovunque un alone ambrato.
I segni di attività umana erano limitati ai manufatti poggiati su un circolo naturale di pietre piatte che affioravano dal terreno come una pavimentazione: un calderone, una lancia infilata nel calderone e una spada piantata nella roccia, come quella che si dice Arthur dovette estrarre per dimostrare di essere il Re di Camelot, la stessa spada sottratta il giorno della Natività di un anno prima.
Gli oggetti però non stonavano all’interno del tempio naturale, anzi, di aspetto più antico del tempo, ne erano perfettamente in sintonia, così come lo stesso Cavaliere Verde: tutte emanazioni di un unico spirito vitale, come i fiori e i frutti di un albero.
L’unica presenza in qualche modo sbagliata lì dentro era la sua.
Accarezzò ancora la cintura di serpente per darsi coraggio, ma qualcosa fece accelerare i battiti del suo cuore. La pelle squamata si stava sfaldando sotto il suo tocco, le scaglie si stavano staccando e la pelle sotto era putrida e marcescente.
«Questo è il luogo della Verità e della Vita – disse il Bredbeddle con voce calma – le menzogne non vi durano che pochi attimi.»
Il giovane si girò da dove era entrato, ma i rovi erano una muraglia compatta e impenetrabile. Tornò a guardare il suo avversario con sguardo angosciato.
«La tua presenza onora il nostro patto – continuò questi togliendosi il mantello e mostrando un profondo solco cicatrizzato alla base del collo – Sei pronto a saldare il tuo debito?»
Le lacrime solcarono copiose le guance di Gawayn, che però annuì alla domanda, trasse un profondo respiro e chiuse gli occhi. Sentì i passi pesanti del Cavaliere farsi più vicini, i saldali strusciarono sul terreno per tenere una posizione più stabile, l’ascia fendette l’aria a vuoto per prova. Non era pronto. E non aveva scelta.
Poteva immaginarsi il manico dell’ascia alzarsi a lato della testa, il filo dell’arma correre lungo l’arco disegnato dalle possenti braccia fino a lui.
Sentì lo spostamento d’aria sulla faccia e poi solo un pizzico sul collo. Una goccia densa e calda gli scivolò fino alla spalla.
Per un tempo che sembrò infinito non si mosse, poi la mano andò istintivamente alla ferita, un piccolissimo taglio che intaccava a mala pena la pelle sotto la mandibola.
Quando aprì gli occhi davanti a lui c’era il Cavaliere Verde, con l’ascia bipenne scesa lungo il fianco e in mano l’elmo pentolare. La vegetazione cresceva sulla sua testa in forma di lunghi fili d’erba, tralci di rampicante e foglie, ricadeva come una folta chioma i lati della testa e si raccoglieva sul mento in una lunga barba verde e marrone, che incorniciava un volto scolpito nella corteggia: il volto di Bercilak.
«Uccidimi – disse – taglia la testa di questo corpo già morto e libera il mio spirito.»
Gawayn era sconvolto, scuoteva la testa incredulo.
«Voi… voi mi avete risparmiato la vita, non potete chiedermi questo.»
La maschera di legno simulò un sorriso stanco.
«Sono stanco, figlio mio, combatto da più vite di quanto sia sopportabile. Neanche il mio corpo mi appartiene più. Per il debito della vita che ti ho concesso ti chiedo di porre fine a tutto questo. Questa non è più la mia guerra.»
Il ragazzo deglutì a forza e ancora una volta annuì tra le lacrime e sfoderò la spada.
Un istante dopo la testa rotolava in terra, ma la magica vitalità del Bredbeddle gli mostrò ancora il suo stesso corpo barcollare e indietreggiare. Dalle dita e dai piedi partirono viticci che affondarono nel terreno come radici e nella roccia, spaccandola in più punti, si tesero come corde costringendolo al suolo, il legno del torso e degli arti tremò, si contorse e si schiantò con un rumore deciso. Del Cavaliere Verde non rimane che un ammasso di rami secchi e scheletrici.
Con l’ultimo fiato rimasto nella sua gola recisa, Bercilak sussurrò un ultimo grido di battaglia.
«Ibar…»
La Lancia di Lúg vibrò all’interno del calderone, si sollevò in aria e volò come una freccia fino a conficcare la punta incandescente in quello che poco prima era il Bredbeddle e che subito si trasformò in una pira funebre.
Le ultime immagini che vide non furono quelle di Gawayn, che aveva raccolto la spada del suo Re e stava già affrontando il viaggio di ritorno verso Camelot. Ciò che vide invece fu Morgana, la sua amata Morgana, che lo guardava con gli occhi lucidi, dispiaciuta, addolorata, stanca.
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