Non vince nessuno

È come un sogno. Facile: è la vita.

Sarebbe più corretto dire che comincia e finisce come un sogno, perché inizia che tu non sai di esserci e quando ne sei fuori ormai è tardi per fare qualunque cosa. Puoi solo ricordare, se ti è concesso.

Comincia e finisce con un sogno, la reminiscenza di un ricordo appannato dal tempo, più probabilmente, solo una vecchia fotografia impressa male sulla lastra.

Fuori è notte, questo è certo, ma è notte anche dentro, nella cameretta. Non la “mia” cameretta, perché da bambino la cameretta dovevo condividerla con mio fratello, il più grande, e mia sorella, più grande pure lei, ma meno.

Io e i miei fratelli ci passavamo reciprocamente quattro anni. Senza farlo apposta i miei genitori ci avevano concepiti a intervalli abbastanza regolari. Senza fare i conti col cronometro. Quattro anni e qualcosa.

Sono nella cameretta, in questo sogno, di notte, nel mio letto.

Quello sì che era “mio”, però non era un vero e proprio letto di proprietà; era uno di quei letti che di giorno pieghi le gambe e li infili rasoterra sotto un altro letto, come un grosso cassetto. Nell’altro letto ci dormiva mio fratello e, per risparmiare spazio – che nella stanza ci dovevamo stare in tre – anche quel letto era sotto un armadio a ponte.

Quindi, è notte, e quando ero piccolo, la notte, dopo una giornata un po’ fuori dall’ordinario, mi capitava spesso di chiudere gli occhi, mentre cercavo di addormentarmi, e di sentire nelle orecchie un vociare confuso in cui si mescolavano le chiacchiere dei parenti e una moltitudine di suoni presi dalla strada. Una specie di febbre emotiva, non saprei come definirla, fastidiosa comunque, al punto che mi impediva di dormire, per un po’ almeno.

A volte, invece, mi accadeva di svegliarmi con quella stessa confusione sommessa nella testa; allora mi spaventavo.

All’epoca mi spaventavo un po’ per tutto, a dire il vero, soprattutto di notte.

Una volta ho sentito un rumore ronzante e ho pensato che qualcuno in un’altra stanza stesse srotolando dello scotch, perché il rumore sembrava molto simile, ma dopo alcuni minuti era evidente che il nastro adesivo non c’entrava nulla e che il rumore era nella cameretta, così ho chiamato papà; lui è venuto, ha acceso la luce e ho visto un’ape, o forse una vespa, che si dibatteva sul pavimento e non riusciva più a volare via.

“Sta facendo le larve” ho detto sul punto di mettermi a piangere.

Era la cosa più disgustosa a cui riuscivo a pensare, dopo un cornetto ripieno di capelli, fantasia ricorrente che ancora oggi mi fa venire i conati di vomito. Un insetto che partoriva larve come un mammifero a pochi passi da me.

Ero fobico di vermi e piccole cose morbide e striscianti in generale da quando a casa di mia zia, che al tempo abitava in campagna, avevo visto un passerotto posato in terra; pensavo di prenderlo, metterlo in una gabbietta e prendermene cura. In realtà sapevo che sarebbe volato via appena mi fossi avvicinato, invece restò lì immobile, in maniera a dir poco sospetta, così lo girai e dal ventre dell’uccellino sbocciò un fiore di lunghi vermi rosa che brulicavano nelle sue interiora.

In ogni caso, la storia finisce con papà che prende il povero insetto con un fazzoletto e lo va a scaricare nel water.

Nel sogno dell’inizio però non ci sono insetti: ci sono io che mi sveglio nel mio letto con le orecchie piene di voci confuse e il cuore che mi batte forte. Nel buio non vedo nulla, ma so che lì vicino, proprio davanti ai miei occhi, c’è il letto dove dorme mio fratello.

Lo chiamo sottovoce.

“Che c’è?” risponde lui, come se fosse già sveglio ad aspettare la mia richiesta.

“Ho paura” dico.

Lui, invece, non dice niente. Non si può dire niente, non si deve dire niente alla paura. Io avevo paura del buio e la paura non ascolta, come le api non vengono a fare le larve sul tuo pavimento, ma nel momento in cui lo credi possibile sono lì: le larve della paura ti strisciano addosso.

Non dice niente, mio fratello, e allunga la mano; sento le dita lunghe e sottili che intercettano le mie, il suo palmo che abbraccia il mio e le voci diventano un po’ meno fastidiose e il buio un po’ meno pauroso.

Poi il sogno cambia. Nel sogno mi riaddormento e faccio un sogno nel sogno.

Ci siamo io e lui che giochiamo con dei robot, quei grossi pupazzi di plastica che andavano quando ero bambino io. Aveva otto anni più di me e giocava con me come un adulto gioca con un bambino.

Sul tappeto verde rosso e nero, lui con un robot rosso e blu, il leader dei robot buoni, io con un robot tutto bianco. Giochiamo senza una meta, facendo rumori di missili e di esplosioni. Il robot bianco mi piaceva proprio perché nei cartoni in cui compariva era muto, così potevo concentrarmi meglio sui suoni spettacolari del combattimento.

Una vera e propria guerra senza esclusione di colpi, almeno finché mia madre non passa davanti alla porta della cameretta, si ferma a guardarci, sorride e domanda: “allora, chi vince?”

Il sogno si interrompe sempre qua.

Si interrompe perché non so cosa rispondere o forse perché la domanda non ha molto senso: anche se dovesse vincere uno dei due robot, l’istante dopo sarebbero di nuovo tutti e due in azione per cominciare un altro combattimento.

Nei giochi funziona così e nella mia vita da bambino, più o meno, funzionava allo stesso modo: ho mal di pancia e dopo due giorni torno a mangiare cioccolata, mamma ha mal di testa, ma domattina viene a svegliarmi per fare colazione e così via.

La sofferenza e la malattia sono affezioni passeggere, passano senza lasciare traccia, possono vincere un po’, ma poi il gioco finisce.

La morte non esisteva.

Così quando è cominciato tutto, per me c’era solo da aspettare. Mio fratello non stava bene, ma quanto poteva essere lunga un’influenza? Quanto poteva essere brutta?

Abbastanza da insospettire e preoccupare il nostro medico di famiglia.

Ci sono state visite ed esami, credo di ricordare, abbastanza di frequente. Per cosa non lo sapevo, se era influenza sarebbe passata, come passava il mal di pancia, il mal di testa e tutto il resto.

Le visite, evidentemente, venivano fatte anche in ospedale, perché un giorno mamma mi dice che mio fratello, in ospedale, doveva rimanerci, per quanto non si sapeva.

Io non lo sapevo di certo, sapevo solo che non avrebbe dormito a casa quella notte. E io avevo ancora paura del buio.

Quella notte e molte altre a seguire. Notti in cui avrei fatto strani sogni simili a ricordi appannati dal tempo.

Sono seduto su una sedia di legno con i gomiti poggiati sul tavolo rotondo nella sala, a casa di nonna, la mamma di mamma.

Quando mamma faceva le notti in ospedale, io e mia sorella dormivamo da nonna – più raramente da mia zia – perché papà si svegliava presto per andare a lavoro, e dormiva a casa.

Forse ero rimasto a dormire lì o dovevo rimanerci quella notte, forse nessuna delle due, perché è pomeriggio, in realtà.

C’è zia che parla con nonna – che è anche sua mamma – e le racconta qualcosa che è successo in ospedale. Io guardo i cartoni animati alla tv, mi annoio, ma sempre meglio delle chiacchiere degli adulti, quindi non ascolto cosa stanno dicendo. Non mi viene neanche la curiosità di sapere se le cose stanno andando bene o male.

“Era meglio se moriva”.

Lo dico per fare una battuta e attirare l’attenzione.

Zia mi insegue urlando per tutta casa finché non mi infilo in una nicchia tra il muro e il frigorifero della cucina.

“Non dirlo neanche per scherzo!”

Lo ripete alcune volte, poi se ne va.

Ancora non so chi dei due fosse più spaventato. Ognuno per i suoi motivi. Io non capivo cosa stava succedendo. Lei sì.

Eppure quello che stava succedendo era abbastanza semplice: mio fratello era malato di leucemia.

Una parola terribile, che per me non significava assolutamente nulla, se non che tutti avevano paura di parlarne, almeno quanto io avevo paura di chiedere.

Una specie di malattia del sussurro, a causa del quale le cose possono solo essere bisbigliate, confuse in un brusio strinato mentre gli insetti partoriscono le loro larve. Salvo poi fissare lo sguardo su quelle cose che si muovono – si muovono anche se non lo dice nessuno – e mettersi a urlare.

Gli adulti lo fanno in un modo, in bambini in un altro.

Sono a scuola, una mattina qualsiasi, chiedo in prestito un colore a matita a un compagno; quel colore io non ce l’ho, il mio si sarà rotto oppure l’ho perso; comunque mi risponde di no. Io mi arrabbio e vado a buttare il disegno nel cestino, il maestro mi vede – così come mi vedono tutti – e mi chiama alla cattedra, gli racconto cosa è successo e chiama anche l’altro bambino.

“Perché non gli hai prestato il colore?” gli chiede senza alcun tono d’accusa.

“Perché è mio – risponde – Compratelo”.

“Non posso! Dobbiamo comprare le medicine!”

Urlo, anche se non è vero, non importa che non sia vero, non importa neanche il colore, è solo l’occasione per far star male un po’ anche gli altri, per non stare male da solo.

In realtà, nel loro andare male, le cose sembravano andare meglio: le terapie avevano portato dei buoni risultati e dopo mesi passati in ospedale, mio fratello era tornato a casa e stava bene, faceva quello che ricordavo faceva sempre prima della malattia.

Era solo più magro, ma anche quello doveva essere un problema passeggero.

Così una mattina c’è questa gara di giavellotto al campo di atletica, a cui partecipa anche un mio cugino, e mi portano a vederla alcune zie. Il campo è all’aperto e se ti vuoi sedere devi farlo sulle gradinate di cemento.

Scomode davvero, però non ci faccio troppo caso finché una zia non dice a mio fratello:

“Ti fa male? Ti credo, poggi direttamente sulle ossa”.

Era ancora troppo magro, sebbene stesse riprendendo peso. La ciccia significava che la malattia se ne stava andando, il corpo stava vincendo e sarebbe ingrassato per dirlo a tutti, ma ne aveva da recuperare, per cui ancora sedeva sulle ossa.

Scomode, insomma, allora mi alzo e mi metto a giocare con una ragazzina conosciuta lì. La gara neanche la vedo, perché zia mi aveva detto “Non ti allontanare” e io mi sono allontanato.

Mi sembrava di sapere esattamente cosa fare, cioè la cosa giusta.

Con la stessa zia, qualche anno dopo, sarei andato in piscina. Con lei e con un ragazzino poco più grande di me, figlio di suoi vicini di casa. Volevo a tutti i costi saltare dal trampolino alto e quando me l’ha proibito mi sono nascosto dietro un muretto, mi è venuta a prendere e mi ha portato a vedere l’altro ragazzo che si tuffava, era abbastanza umiliante, ma non avevo scelta “finché sei con me ho la stessa autorità di tua madre” mi aveva detto.

Il ragazzo è salito, si è affacciato dal trampolino ed è sceso. Ha guardato giù e ha avuto paura, la stessa che avrei avuto io, solo che lui l’ha capito ed è sceso.

Comunque sia, quella mattina, mi ero allontanato dalle zie e da mio fratello.

Il campo di atletica è un anello allungato, non ci sono molte possibilità di perdersi, però ci sono riuscito lo stesso: non trovavo più quelle gradinate e comunque loro erano spariti. In effetti erano in giro a cercarmi. Poi per fortuna mi hanno trovato.

Fu l’unico evento un po’ particolare di quel periodo, per il resto proseguiva tutto come al solito.

Dicono che mio fratello fosse un piccolo mago del computer, rigorosamente Amiga500 il top di gamma per l’epoca. Io capivo solo che ci si poteva giocare e stampare delle immagini.

Lui invece ne faceva una sorta di oggetto sociale. Non girava molta gente a casa nostra, però quel ragazzo l’ho visto diverse volte, un suo amico, un compagno di scuola, giocavano insieme al computer e io li guardavo giocare da dietro le loro spalle, seduto sul letto.

Quella volta in particolare era estate, lo so, perché questo suo amico comincia a levarsi la giacchetta per il caldo, poi si ferma e chiede a mio fratello: “Non è che si spaventa?”

Ce l’ha con me. Mio mi fratello mi guarda e io scuoto la testa, con aria offesa anche solo dalla possibilità che potessi spaventarmi.

Sotto la giacchetta ci sono i segni ancora freschi di un incidente con il motorino.

Mio fratello voleva il motorino, lo voleva tantissimo. In una città con trasporti pubblici da terzo mondo non è facile per un ragazzo anche solo avere una vita sociale decente, lui era bravo e ci riusciva lo stesso.

Il suo amico, comunque, il motorino ce l’aveva e c’era pure caduto, non si era fatto niente di grave, era caduto, ma aveva un braccio tutto grattugiato dal gomito alla spalla.

Era una di quelle cose per cui mio padre non voleva comprare il motorino ai suoi figli: potevano succedere brutte cose.

E brutte erano brutte, le ferite intendo, in quella fase in cui la crosta non era ancora spessa e marrone, appena una patina semisolida di globuli bianchi rappresi.

Non ricordo a cosa stessero giocando perché ho guardato tutto il pomeriggio i segni sul braccio di quel ragazzo.

E poi giocava anche con me, sempre al computer. C’erano due giochi in particolare a cui giocavano insieme, io e mio fratello, due platform: in uno eri un omino che creava arcobaleni davanti a sé con cui imprigionare i nemici; nell’altro, invece, eri un kiwi – l’uccellino, non il frutto – che doveva salvare i suoi amici, kiwi anche loro, rapiti da un farabutto tricheco.

Stavamo giocando a fare i kiwi, la volta in cui è caduto.

Io sono sempre seduto dietro di lui, sul letto, e lui davanti. Ha appena impostato un trucchetto per guadagnare vite extra: premendo un tasto si aggiunge una vita, rappresentata da un piccolo kiwi in basso sul monitor.

Avremmo potuto giocare la stessa partita senza mai morire abbastanza da dover ricominciare, avremmo potuto arrivare alla fine e vincere.

Invece, vedo i piccoli kiwi moltiplicarsi senza requie sullo schermo. Il dito di mio fratello è bloccato sulla tastiera che fa riprodurre i kiwi e un attimo dopo lui cade di lato, la testa sbatte sulla seduta di uno sgabello di ferro lì di fianco, ma non scivola a terra come dovrebbe fare se fosse svenuto, rimane rigido come un pezzo di legno, sospeso tra la sedia e lo sgabello.

Non è normale, sembra una cosa fatta apposta, così rido; sembra una delle tante volte in cui faceva il cretino per far ridere gli altri.

Di solito gli usciva bene. Durante una cena – cenavamo tutti insieme sul tavolo in cucina – mentre si parlava di educazione, il discorso è caduto su rumori intestinali, peti e affini.

“E se mi scappa a tavola?” ha chiesto e prima di avere risposta si è alzato, di corsa è andato dietro il muro del corridoio e ha fatto una pernacchia rumorosa con la bocca.

Rido ancora pensando a quella pernacchia, la classica finta scureggia che fa scompisciare dal ridere i bambini.

Solo che lì, sullo sgabello, non sta facendo finta, è tutto vero. I muscoli del volto sono contratti e le palpebre sbattono in maniera compulsiva.

Chiamo mamma, lei arriva, strilla e chiama papà, arriva pure lui, ma neanche loro sanno che fare. Riescono a metterlo sul letto, però è così irrigidito che fanno fatica a tenerlo seduto. I denti sono serrati.

“Aprigli la bocca!” dice mamma a papà.

“Che gliene frega della bocca?” penso.

Hanno paura che soffochi; se ha perso il controllo sui muscoli potrebbe ingoiarsi la lingua e soffocare, ma questo l’ho scoperto solo dopo, per caso.

Alla bocca comunque non gliene frega niente e rimane chiusa. Papà prende la prima cosa utile a disposizione: un crocifisso di legno. Non tanto per il crocifisso – mio padre è sempre stato abbastanza indifferente alla religione – quanto per l’occhiello di ferro in cima, una di quelle vitarelle con il cerchietto che ti consentono di appenderla a un chiodo nel muro. Prova a infilargli l’occhiello tra i denti per aprirli: un tentativo stupido, dettato dal panico, che infatti non ha alcun successo.

“Apri ‘sta cazzo di bocca!” urla.

Non credo che ce l’avesse con suo figlio. Se mio padre aveva paura di una cosa, è sempre stata di non essere capace di fare quello che andava fatto per la sua famiglia. Lo stava dicendo a se stesso: “cerca il modo di aprire questa bocca”.

Da lì a poco arriva l’ambulanza. Si porta via mio fratello, con la bocca ancora chiusa. Di nuovo in ospedale.

Io rimango davanti al computer, che è ancora acceso sulle avventure del coraggioso kiwi che viaggia per salvare i suoi compagni; cerco il modo di riprendere la partita o di cominciarne una nuova, faccio tutto quello che ricordo di avergli visto fare, ma non ci riesco.

Per quanto ne posso sapere io, da quel giorno, mio fratello non sarebbe più stato bene.

Ho sempre pensato che la malattia avesse vinto e basta, una di quelle cose che accadono e basta; ti illudi che possa funzionare e invece non funziona.

Allora è normale, quando scopri che, forse, al limite, poteva pure funzionare, che ci rimani male. Mia madre dice che il suo organismo era risultato intollerante a una sostanza presente nella formula ordinaria della chemio – qualunque cosa questo possa voler dire – e ne avevano usata un’altra, che all’inizio ha sembrato funzionare salvo poi provocare un collasso simultaneo di tutti gli organi.

E più o meno è successo così, all’improvviso, un brutto giorno l’ambulanza si porta via un ragazzo e un altro giorno, non so dire quanto tempo dopo, riporta a casa qualcosa che somiglia a quel ragazzo, ma che di quel ragazzo ha solo la paura negli occhi. Di lui non c’è più nulla. Pelle tirata e biancastra sulle ossa che nasconde a stento il reticolo di venuzze dentro cui scorre a fatica sangue malato. Non cammina più, si muove a fatica, parla a stento.

Se ne sta tutto il tempo seduto sul divano davanti alla televisione, io gioco, mi aggiro tra le camere facendo finta di sparare a nemici invisibili, quando arrivo in sala mi giro e gli punto contro le dita facendo finta che siano la canna di una pistola.

Lui mi risponde con uno sguardo terrorizzato e chiama la mamma, lei arriva e lo consola.

“Non ho fatto niente” mi giustifico.

Non ottengo risposta, così vado in cucina e poco dopo arriva anche mamma.

“Non ho fatto niente” ripeto.

“Lo so – mi dice lei – ma cerca di non farlo agitare”.

“Non è giusto” insisto.

“Lo so” ripete mamma.

Se ne sta sul divano anche quella sera. Parla male – sembra far fatica a respirare – dice qualcosa a papà, io non ho capito cos’ha detto, di sicuro ha chiesto qualcosa, perché mamma interviene.

“Non vuoi provare ancora un po’ con l’aceto?” gli chiede mamma.

Lui scuote la testa.

“Una bombola costa un occhio della testa…” dice papà poco convinto.

“Ti prego, papà, ti do tutto, fino alle ultime mille lire”.

Papà non regge lo sguardo di supplica, si abbassa per aprire lo sportello dei liquori, scuote la testa, non sa che scegliere, non sceglie niente.

“Vabbè, domani vediamo” dice, poi chiude lo sportello ed esce dalla sala.

Mio fratello inizia ad ansimare.

“Mamma…” dice mentre la frase gli muore in gola insieme al respiro.

“Su, su, vedrai che adesso va meglio”.

Mamma gli mette un tovagliolo piegati sotto il naso. L’odore acre è quello dell’aceto.

Seduto sul divano. Non ricordo in quale occasione, ci sono tanti parenti a casa, il vociare confuso è quello dei miei sogni, mischiato al rumore del traffico giù in strada.

Sempre sul divano, di fianco a lui una bombola alta e snella, grigia, forse azzurra o verdastra.

Chiede qualcosa a papà e papà scuote la testa, sembra infastidito; prova ad aggrapparsi alla sua camicia senza riuscirci, il braccio non ha abbastanza muscoli da riuscire a stendersi, si alza un po’ e rimane piegato, lasciando a mezz’aria la mano quasi inerme afflosciata sul polso. Però parla ancora, così guardo attentamente le labbra che si muovono appena, per cercare di capire cosa dice, e non mi accorgo della reazione di papà a quell’ennesima richiesta.

Sento la risposta, come tutti.

“Pijate n’altro po’ de ‘sta droga!”

Il grido interrompe il brusio e porta il silenzio.

Quando lo inquadro, papà sta finendo di aprire la valvola dell’ossigeno, l’indicatore sul quadrante schizza in alto e gli occhi di mio fratello strabuzzano, sembrano dover schizzare fuori dalle orbite, le labbra si stringono in fuori, come quelle di una scimmia.

Dura un attimo, poi papà chiude la valvola fino al punto giusto, abbassa lo sguardo ed esce borbottando qualcosa.

Io vado da mamma e piango.

“Papà non è arrabbiato – mi spiega lei – È solo stanco”.

Eravamo tutti stanchi. Solo che papà aveva dovuto caricarsi la bombola dell’ossigeno dall’ospedale e portarla fino a casa a piedi, perché quel tragitto era stato interdetto al traffico per via dell’imminente visita del Papa.

Anche io ero stanco. Così stanco che quella notte avevo dormito come un sasso. Un sonno senza sogni che si era interrotto da solo, nessuno mi aveva svegliato.

Avrebbe dovuto farlo mia zia, dormivo là da un paio di giorni, ero contento perché potevo giocare con mio cugino, poco più grande di me.

Zia mi dice che aveva telefonato mia mamma perché l’hanno avvertita che oggi non si va a scuola. Non ci va manco mio cugino, anche se lui frequenta un’altra scuola.

Dopo pranzo papà viene a prendermi, lasciamo la macchina a casa e andiamo a casa di nonna a piedi; andiamo lì perché ci sono tutti gli zii e i cugini – mi dice – tutti tutti, anche quelli che vivono lontani.

Gli chiedo se c’è anche mio fratello, cioè se lo hanno fatto uscire dall’ospedale.

“Gli angeli avevano bisogno di qualcuno che gli insegnasse a usare il computer” è stata la sua risposta

Non era una brutta cosa e in fondo non pensavo fosse una cosa definitiva: quando gli angeli avessero imparato bene bene ce lo avrebbero rimandato.

Per anni dopo quel giorno ho fatto dei sogni in cui lui tornava, e c’era un motivo valido e importante per cui era stato tenuto lontano, un motivo che non mi avevano potuto dire, però quel motivo non c’era più e sarebbe rimasto sempre con noi.

Andare ad aiutare gli angeli era un motivo importante, non era una brutta cosa, quindi non ho pianto per strada.

Da nonna, in effetti, c’erano davvero tutti. Tutti gli altri.

Mi raccontano di come avevano mangiato e poi di come avevano lavato i piatti tutti insieme nella vasca, una cosa fantastica, che non si sarebbe mai più ripetuta.

Mi sono arrabbiato moltissimo perché avevano lavato i piatti nella vasca senza di me e allora, sì, ho pianto; avrei voluto lavare i piatti con loro, non mi avevano chiamato, non mi avevano aspettato e ora non c’era più nulla da lavare o da asciugare, rimaneva solo da piangere.

C’erano i funerali quella mattina e dalla finestra della mia classe si vedeva la chiesa; affacciandomi avrei potuto riconoscere qualcuno, avrei potuto sapere che era morto, e invece a oggi nessuno me lo ha ancora mai detto.

Così mi rimane solo da sognare, sognare di fare la guerra tra robot su un vecchio tappeto, finché il sogno non viene interrotto da una domanda priva di significato.

Una domanda a cui oggi saprei rispondere.

“È solo un gioco, non vince nessuno”.

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