Serena – parte 4

6 terribili verità – Quinta verità

«Serena. Serena.»

Serena si svegliò con la testa che le girava e il sangue che le colava sugli occhi da un profondo taglio sulla fronte. Accanto a lei, Davide era riverso sul volante, respirava ancora e non sembrava aver riportato lesioni gravi. Provò a risvegliarlo, ma rimase privo di conoscenza, così scese dalla macchina.

Distrutta. La macchina era distrutta. Il motociclista che aveva causato l’incidente era ancora sulla strada, fermo, a cavallo della Harley, il casco sotto il braccio.

«Serena, mi stavi cercando?»

Fausto parlava con due voci, la sua, stanca e spaventata, e quella di Diana, consapevole, sicura, e folle.

Serena avanzò barcollando verso l’uomo.

«Diana, lascialo andare, prima che qualcun altro si faccia del male. Tu non sei così.»

«Oh no, Serena, non hai capito come stanno le cose, dico sul serio.»

«Eri tu quella forte tra noi. Ti ricordi? Eri quella che si tirava sempre in piedi per prima se cadevamo, tu mi difendevi, se vedevamo qualcosa di brutto, tu mi consolavi e mi dicevi di pensare a cose belle.»

«Non dire così, non sai come stanno le cose.»

«Sei ancora forte, Diana, liberati da tutto questo.»

Il volto dell’uomo ebbe un fremito, riacquisì per un istante un’espressione confusa. Nel frattempo Serena era giunta proprio davanti la moto, così vicina da riuscire a guardare negli occhi di Fausto.

«Fausto, non andartene da me.»

La risposta fu accompagnata dal rombo del motore che si accendeva.

«Non ho scelta…»

Serena posò le sue mani sul manubrio, sopra quelle di Fausto.

«Neanche io…»

I suoi occhi piangevano e quando le lacrime scivolarono dalle guance e caddero sulla moto, il motore si spense; il tempo di un breve singulto ingolfato e il mondo fu avvolto da un breve lampo di luce abbagliante per ripiombare subito nell’oscurità della notte.

Ora Serena vedeva tutto come se stesse osservando da un passo dietro il suo corpo, da una posizione sopraelevata, vedeva bene il corpo smunto ed emaciato di Fausto sovrapposto alla sua coscienza sfilacciata e attraversata da sottili venature energetiche. E vedeva Diana e i suoi artigli, simili a zampe di un crostaceo, infilate dentro di lui.

«Puoi liberarti, Fausto, la morte è solo un passaggio, devi accettarla e riunirti al Flusso.»

Dall’alto cominciarono a cadere minuscoli lapilli luminosi, che fluttuando nell’aria attorno a loro potevano sembrare la danza di centinaia di lucciole.

Dal sottobosco a lato della strada, oltre l’automobile piantata nell’albero, cominciò a emergere una lugubre figura, il suo volto eburneo, sebbene privo di espressione era in attesa. E qualcosa avvenne; la coscienza di Fausto cominciò a dissolversi, ad andare in fumo e a consumarsi come ghiaccio secco.

Serena percepì la paura dell’uomo e strinse più forte le sue mani.

«Non devi avere paura.»

Il Mietitore avanzò fino al bordo della strada stagliandosi in tutta la sua altezza.

«Io sono vivo.»

La voce di Fausto era tremante, Serena gli parò in modo dolce e comprensivo.

«No, non lo sei.»

Il Mietitore allargò le braccia quel tanto che fu necessario a far scivolare via gli stracci che lo ricoprivano dalle lunghe falci ricurve che aveva al posto delle mani.

«Si! Lo sei – disse Diana – Lo siamo!»

Fausto guardò Serena.

«Presto, prima che sia troppo tardi!» continuò l’ombra dai lunghi capelli.

Il Mietitore si stava spostando lentamente lungo la strada avvicinandosi alla moto.

Fausto piangeva, il volto contrito lasciava trasparire il suo terrore, sapeva che stava per fare la cosa sbagliata, l’ombra di Diana alimentava la sua paura e se ne nutriva. Lui lo sapeva, lo sapeva e non poteva farne a meno. E così piangeva.

«Io voglio vivere…»

A quelle parole la forma umbrale di Diana rise, un sorriso malefico a bocca aperta, una falce di luna sul volto della notte; le sue mani artigliate squarciarono la coscienza di Fausto, dal petto di lei di aprì una voragine verticale, una bocca famelica con le costole come denti.

Ormai di Diana non c’era più nulla, esisteva solo il male che aveva subito e la follia in cui questo male l’aveva fatta sprofondare. La persona non c’era più, c’era solo il Mara.

Le orribili fauci del Mara si serrarono su Fausto, le zanne penetrarono nella sua coscienza e vi si radicarono rilasciando veleno al suo interno, l’ombra la ricoprì e cominciò a diffondersi dentro di essa come inchiostro rilasciato in acqua.

Gli occhi di Fausto si rovesciarono all’indietro, mostrando solo il bianco e cominciarono a lacrimare sangue, il suo corpo fu scosso da un tremore, i muscoli e i tendini si tesero allo stremo, le labbra si ritirarono nel ghigno distorto di una belva arrabbiata.

Strappò le mani dal manubrio e dalla presa di Serena e le strinse attorno al collo della ragazza per strangolarla.

«Non farlo…»

«Sta zitta!»

La voce non aveva nulla di umano, sembrava provenire dal profondo di una cripta. Il corpo posseduto sollevò Serena staccandola da terra mentre le serrava ancora di più le dita sotto il mento.

«Perché, Diana?»

Non riuscì a dire altro, la stretta era così forte da toglierle tutto il fiato, se avesse aumentato di poco la pressione le avrebbe probabilmente rotto l’osso del collo.

«Perché? – rispose il posseduto – Perché ho visto la luce, Serena, dopo tanta sofferenza era la cosa più bella a cui potessi pensare, le sono andata incontro, mi ci sono immersa. Ma oltre la luce… oltre la luce, Serena… c’è solo l’Oscurità, eterna, senza fine.»

Serena fissò quegli occhi bianchi spalancati sull’abisso di una Verità Terribile e per un istante, mentre la vita si andava esaurendo al pari dell’aria nei suoi polmoni in fiamme, sentì i freddi artigli della consapevolezza e della follia penetrare oltre la sua corazza di fede e di pietà.

L’istante successivo cadde a terra tenendosi la gola con le mani, le bruciava da impazzire, la carne delicata coperta di ecchimosi la tormentava, ma almeno era tornata a respirare. Un rumore forte e improvviso, uno sparo, Davide era in piedi vicino alla carcassa dell’auto con la pistola in mano, aveva sparato a Fausto colpendolo poco sotto l’ascella. Il colpo era potenzialmente mortale e il posseduto aveva dovuto lasciar andare Serena.

Barcollò un attimo, poi guardò il poliziotto e lo caricò. La pistola fece in tempo a esplodere solo un altro colpo prima dell’impatto. I due corpi colpirono in velocità il tronco di un pino. Davide non riusciva a reagire, era schiacciato contro l’albero, l’arma era imprigionata con tutto il braccio destro tra il suo petto e il corpo di Fausto, che continuava a spingerlo avanti, e dal dolore allo sterno valutò che aveva almeno tre costole rotte. Dovette limitarsi a subire quando il posseduto gli mise una mano in faccia bloccandogliela contro la corteccia e cominciò a martellarlo di pugni in testa. Provò a scalciare con i piedi, ma era come inchiodato a quell’albero mentre l’altro infieriva, un colpo, un altro colpo e un altro e un altro ancora, finché non sentì qualcosa incrinarsi, erano le ossa del suo cranio che scricchiolavano, sfregavano tra loro – un colpo ancora – e si rompevano.

Un liquidò denso gli colava dalla fronte bagnando tutto il sinistro del volto. Con la stessa lentezza della goccia che gli colava dalle sopracciglia al mento, vide il Mietitore emergere dalla nebbia rossa che gli copriva gli occhi. Stava vendendo per lui, lo sapeva, allora si arrese.

Sentì il sangue, la pelle, i muscoli e le ossa, ogni vestigia di vita umana, scivolargli via di dosso come cera fusa, come un sacco, come un abito troppo largo. Guarda in basso e vide il suo corpo accasciarsi a terra strusciando la schiena lungo il tronco di pino.

Poteva vedere quello che vedeva Serena; vide Fausto avvolto da una nebbia densa e opaca che a tratti lasciava intravedere la sagoma fumosa di una coscienza umana. Vide Serena – gli sembrò di vederla per la prima volta – il suo corpo era immobile, seduta per terra con una mano alla gola, e sopra di lei si stagliava luminosa un’altra lei, eterica, fatta del vapore ghiacciato che si leva dalla brina all’alba. Lo chiamava, in silenzio, senza pronunciare il suo nome, con la disperazione dell’impotenza Serena lo stava chiamando.

Inutilmente. Il Mietitore si era portato alle spalle del posseduto e si preparava a colpire, un boia contro un bambino, un colpo rapido, preciso, privo di pietà o ripensamento, nulla di più di quello che andava fatto, nulla di meno.

Il posseduto inarcò la schiena mentre la punta della falce emergeva dall’addome dopo averlo trapassato, rimase in punta dei piedi, cercando di arrivare con le mani in quel punto irraggiungibile sulla sua schiena dove il Mietitore continuava a spingere la sua mano mostruosa. Il suo volto era una maschera di panico, quella di un’esistenza che sta per cessare. Il corpo rigonfio si accasciò a terra, si accucciò rivolgendo al cielo l’orribile ferita della falce. Una sagoma appena luminescente con le fattezze di Fausto uscì dalla schiena squarciata, si contorse su se stessa in balia di venti immateriali e poi si dissolse in rivoli di fumo colpita da un fendente obliquo della falce del mietitore.

Il Mara, l’involucro d’ombra ormai vuoto, si aggrappava con ostinazione al terreno, artigliando l’asfalto provò a strisciare cieco verso la moto, più si avvicinava e più riassumeva le sembianze di una ragazza dai capelli lunghi.

Il Mietitore tornò a rivolgere la propria attenzione a Davide, la punta della falce gli sfiorò appena la fronte il suo petto e fu colto da una folgorazione di energia pura, dolore e senso di pace, pienezza e annullamento.

Prima di cedere all’oblio dei sensi, Davide vide la coscienza di Serena avvicinarsi a quello che rimaneva di Diana, darle la mano, issarla in piedi e unirsi a lei in un abbraccio di luce e oscurità.

***

«Fu la moto a svegliarmi. Ripresi conoscenza sentendo il rombo del motore. Ero accasciato ai piedi dell’albero dove avevo lottato con il posseduto. Dovevano essere passati solo pochi minuti. Era tornato tutto “normale”. Davanti a me c’era Serena, un angelo biondo che mi sorrideva. “Ti voglio bene, Davide” mi disse. Poi si infilò il casco e diede gas. Sentivo non molto lontano la sirena di un’ambulanza, forse l’aveva chiamata lei. Tenevo ancora la pistola tra le dita rotte della mano; se avessi avuto un briciolo di forza le avrei sparato, avrei svuotato su di lei tutto il caricatore. Quella che sapeva andare in moto era Diana. La vidi scomparire all’orizzonte, inghiottita tra le ombre della Statale.»

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