Serena – parte 2

6 terribili verità – Quinta verità

«Abbiamo fatto tutti gli accertamenti del caso signorina Casti» disse il poliziotto all’angelo biondo che aveva di fronte.

«Serena, agente Montucci, può chiamarmi Serena.»

«Ehm… Sì, Serena, in questo caso lei può chiamarmi Davide – rispose chiaramente imbarazzato – Comunque sia la moto appartiene effettivamente al signor Perchi, non è stata rubata, perciò non posso permetterle di vederla.»

«Capisco» fece lei senza volontà apparente di ribattere.

Davide non aveva alcuna voglia di interrompere così presto il loro dialogo, così cominciò a fare domande fingendo un interesse professionale.

«Posso chiederle perché le interessa tanto quella moto?»

«Era mia. O meglio, era di mia sorella, me l’ha lasciata assieme a tutto il resto quando…»

Serena distolse lo sguardo con una smorfia di dolore appena visibile.

«Oh, lei è…?»

L’agente si pentì subito della sua poca discrezione, lei invece non vi diede peso.

«Sì, da poco.»

«Mi dispiace» non sapeva che altro dire.

«L’ho messa in vendita assieme a molte altre cose… Forse ho commesso un errore.»

 «Ascolti, Serena, date le spiacevoli circostanze, potrei trasgredire il protocollo e farle dare un’occhiata alla moto, il fatto è che… ecco… è stata trafugata stamattina.»

Serena annuì, gli occhi vagavano da una parte all’altra, come se la mente stesse ripercorrendo le tappe di una storia che già conosceva.

«Grazie mille, Davide. È stato molto gentile» disse prima di uscire nella notte scesa da poco fuori dal commissariato.

Lui continuò a guardare i suoi fianchi ondeggiare in modo ipnotico anche attraverso la spessa porta a vetri. Rimase lì imbambolato fintanto che lei non ebbe attraversato l’ingresso della questura e non fu sparita oltre il grande portone incassato tra le colonne squadrate. Il quell’istante gli arrivò uno scappellotto dietro la nuca.

«Molto. Gentile. Uh-uh» gli fece il verso un altro poliziotto.

«Lo sono sempre – rispose Montucci simulando infinita pazienza – almeno ogni tanto qualcuno se ne accorge.»

«Io lo dico sempre che sei il mio partner preferito» disse l’altro ammiccando.

«Tulin…»

«Ma niente servizietti. Ehehe.»

«Tulin!»

«Almeno non stasera.»

«Sei scemo o drogato?»

«Tutti e due. Per questo sono momentaneamente inabile al servizio.»

«No, è perché sei caduto di culo mentre inseguivi un disgraziato che ha provato a venderti un tòcco di fumo ai giardinetti.»

«E-sat-to – gli puntò entrambi gli indici contro con sguardo furbo – ma tu no.»

«E quindi?»

«E quindi ti becchi l’ultima chiamata del cazzo della serata! Complimenti!»

«Ma la finisci? Cos’hai, dodici anni?»

I due si guardarono un po’ con l’aria sempre più torva, poi Tulin allargò un sorriso incontenibile.

«Hai ancora il culo di quella tipa che ti balla davanti agli occhi, eh?»

«È la volta buona che chiedo il trasferimento…»

«Guarda come dondolo. Uh-uh.»

«Mi dici di cosa si tratta?»

«Certo, il lavoro prima di tutto.»

Tulin riassunse un’impostazione molto seria e mentre leggeva alcune righe scritte su un taccuino mostrava a Davide il dito medio alzato della mano destra.

«Trattasi di chiamata urgentissima di signora rumena che ha sentito rumori inopportuni e preoccupanti davanti la sua bella casetta al Pantanaccio. Per l’esattezza un cassonetto rovesciato…»

«Devo andare fino a là per un cassonetto rovesciato?» chiese Montucci scocciato.

«Fammi finire – lo redarguì il collega con lo sguardo da cospirazione segreta – non si tratta solo di un cassonetto, ma anche, attenzione attenzione, una moto, eeeee gente che parla a voce alta!»

«Ma vaffanculo! Dai! Mica ho tempo da perdere.»

«Sai com’è, visto che ti ho coperto per un’ora la settimana scorsa, direi che ce l’hai.»

«Tulin…»

«No, non dire altro, mi ringrazierai un’altra volta.»

Montucci, guardò rassegnato il collega dargli le spalle e allontanarsi ridacchiando. Avrebbe voluto dirgli molto altro in realtà, ma gli conveniva darsi una mossa, verificare l’ennesima chiamata a vuoto – un litigio tra ubriachi, al massimo, – e chiudere il turno alla svelta.

Se avesse saputo che avrebbe trovato una moto, fino a poche ore prima “nuova fiammante”, accartocciata dentro un cassonetto dei rifiuti, forse qualche parolina con Tulin l’avrebbe sprecata.

«A qualcuno qui non piacciono le moto giapponesi» disse tra sé e sé mentre sganciava la sicura dalla fondina della sua pistola.

Guardandosi attorno notò un particolare piuttosto evidente: tracce di un solo pneumatico che dalla strada portavano fino al giardino di una porzione di villetta quadrifamiliare. La signora che aveva chiamato la polizia viveva in un palazzo proprio lì di fronte.

A quanto pareva una moto aveva sgommato di fronte al vialetto d’ingresso e senza preoccuparsi troppo dei cespugli e delle begonie aveva attraversato il prato per poi entrare diritta in casa dalla porta principale. La casa di Arturo Morini, come recitava il nome sul citofono.

Davide estrasse la pistola e oltrepassò i frantumi della porta d’ingresso. La sua torcia illuminò un soggiorno completamente a soqquadro. Mobilio di cattivo gusto rotto e rovesciato, tende stracciate, quadri rotti – per lo più locandine di vecchi film incorniciate – intere annate di riviste di culturismo sparse sul pavimento. E lunghe strisciate di sangue. Era la scena di una violenta colluttazione, forse addirittura di un delitto. Una lotta impari, un massacro, un essere umano contro una forza della natura feroce e selvaggia. Ogni ulteriore analisi visiva non faceva che rafforzare questa impressione.

“Quale razza di belva può fare questo?”

La domanda era stampata sul suo cervello a caratteri cubitali mentre il fascio della torcia metteva in chiaro la sagoma di una ragazza bionda, china su alcuni segni impressi sul pavimento. La ragazza lo guardava con un accenno di imbarazzo a tingerle le gote.

«Signorina Casti… Serena, credo che lei abbia qualcosa da spiegarmi» disse l’agente Montucci tenendole la pistola puntata contro.

«Ehm… Davide, diamoci del tu…»

***

Il piccolo bar, piuttosto anonimo, sulla circonvallazione, sembrava un posto così accogliente e sicuro, anche se a quell’ora c’erano solo loro due, da un lato del bancone, e dall’altro una cameriera impaziente e assonnata.

Il cappuccino ormai freddo continuava a ondeggiare nella tazza fra le mani di Davide, che cercava di oltrepassare con lo sguardo lo spesso strato di schiuma mentre parlava con Serena,

«Non so ancora come tu abbia fatto a convincermi a non fare rapporto sul casino che ho trovato a casa di Morini» disse scuotendo la testa.

«Ma tu hai fatto rapporto» rispose lei.

«Già, peccato che tu non compaia in quel rapporto!»

Davide alzò gli occhi dal cappuccino, rassicurato dal fatto che la cameriera non sembrava particolarmente interessata alla loro discussione, tornò a rivolgersi alla ragazza avvicinando la faccia e abbassando il tono di voce.

«Almeno vuoi spiegarmi cosa diavolo ci facevi lì?»

«Te l’ho detto, Davide, controllavo i segni lasciati dalla moto.»

«Questo lo so, ti ho colto in flagranza di reato, se ben ricordi.»

«Erano i segni della 883, la Harley-Davidson, è stata lei!»

«È stata lei?»

«E Fausto Perchi…»

Montucci era sul punto di scagliare la tazza che aveva in mano contro la parete dietro il bancone, tanto per sfogarsi in qualche modo, perché Serena gli sembrava tanto sincera quanto affranta da quello che stava dicendo e invece lui aveva bisogno di elementi seri per giustificare, innanzi tutto a se stesso, la fiducia che le aveva dato non denunciando la sua presenza sul luogo di un reato. Si passò una mano sulla fronte e tornò a fissare Serena.

«Cerca di farmi capire: secondo te un impiegato di 60 chili scarsi, che ha preso la patente A da un mese, entra come una furia in casa di un culturista e gli fa il culo? Ah, ovviamente dopo avergli buttato una Kawasaki nel cassonetto come fosse la stagnola di un panino. Mi sembra logico.»

«Ok, non è logico, ma se ci pensi torna tutto: Morini supera Fausto sull’Appia, Fausto decide di fare una gara di velocità, anche se non ha mai fatto una cosa del genere in vita sua, così perde il controllo e…»

«Aspetta! Aspetta un momento.»

Davide lanciò a Serena uno sguardo incredulo che si fece sempre più minaccioso man mano che il poliziotto realizzava le implicazioni di quanto aveva sentito.

«Tu come fai a sapere quello che è successo sulla statale? Ai giornali sono state rilasciate altre dichiarazioni. Conoscevi Morini?»

«No, io…»

«E allora?»

«Io so queste cose… perché… vedo Fausto.»

«Lo vedi?»

L’espressione dell’agente era tornata di colpo sull’incredulo spinto.

«Lo vedo… Oddio! È così difficile da spiegare…»

«Provaci almeno, perché comincio a pensare che tu sia pazza.»

Il tono fu più duro di quanto avrebbe voluto, Serena aveva tutta l’aria di essere in grosse difficoltà e lui voleva cercare davvero di capire cosa stesse succedendo, ma si rendeva conto che la discussione gli stava sfuggendo di mano, stava virando verso un terreno sconosciuto in cui non era sicuro di voler campeggiare. E questo lo spaventava.

«Davide! Tu non mi stai a sentire: la moto… in qualche modo comanda Fausto, lo spinge a fare tutto ciò che non oserebbe mai fare. Tutto questo ha già causato delle vittime, ma questa violenza non si fermerà da sola!»

La cameriera alzò un sopracciglio e smise per un secondo di limarsi le unghie, ma riprese subito a farsi gli affari suoi quando Davide si alzò dalla sedia e mise la mano sulla tasca dietro dei pantaloni per prendere il portafoglio.

«Io non ti sto a sentire? Prova a dire meno stronzate! Ti rendi conto o no di quello che dici? Un tizio è scomparso e tu mi parli di moto stregate. Non è un cazzo di film dell’orrore, è solo lo schifo di vita di tutti i giorni di un poliziotto di Littoria!»

Tirò fuori dal portafoglio una banconota da dieci euro e la poggiò sul banco, Serena ne approfittò e prese la mano di lui tra le sue.

«Hai ragione, Davide, non è un film. Guarda.»

La mente e gli occhi di Davide furono invasi da immagini scure e confuse, intellegibili come flashback sequenziati ad altissima velocità, inequivocabili come foto ricordo delle elementari.

Una moto corre a gran velocità nella notte su un lungo rettilineo, non fa rumore, non vibra, scivola sull’asfalto, più simile all’ombra di una moto sotto la luce della luna piena. Un uomo cavalca la moto, la guida e si lascia trasportare; è visibile, nei passaggi più scuri, una sagoma umana fatta di fumo, traslucida, a tratti riluce e si sovrappone all’immagine dell’uomo, è in lui, è lui. Dietro di lui, fuoriesce la silhouette di una ragazza con i capelli lunghi al vento, fatta della stessa sostanza d’ombra della moto, esce dalla moto, come se fosse una sua estensione, come se fossero la stessa cosa. L’ombra della ragazza abbraccia l’uomo, stringe le braccia alla sua vita, le mani, le dita eteree entrano dentro di lui e si avviluppano come viticci rampicanti alla sagoma luminescente dentro di lui. La visuale cambia, la moto gli corre incontro, il casco lascia intravedere il riflesso di due occhi, non guardano la strada, sono rivolti verso l’altro, le iridi continuano a salire fino scomparire dietro le palpebre, lasciando il campo a due occhi bianchi, occhi senza dubbi, senza timore, gli occhi di Fausto Perchi senza la sua umanità, come due buchi nell’anima attraverso cui l’ombra abbarbicata alle sue spalle spia il mondo degli uomini.

Dietro la moto, una sagoma alta e sottile si avvicina camminando con una lentezza esasperante, un uomo ricoperto di stracci neri dalla testa ai piedi, dal volto pallido e indistinto, che passo dopo passo si avvicina sempre più all’obbiettivo.

Davide tirò indietro la mano di colpo, liberandosi dalla presa di Serena. Era sconvolto.

«Che diavolo era quella roba?!»

«È mia Sorella, Davide. O almeno un tempo lo era» disse Serena.

«Merda…»

Si sedette di nuovo. Stettero qualche minuto senza dire niente, poi Davide ordinò una grappa morbida al posto del cappuccino, che non aveva neanche assaggiato.

«E così tu e tua sorella avete… dei poteri, diciamo. Giusto?» riprese.

«Si dice un po’ di tutti i gemelli, no?»

«Si dice, e di solito sono cazzate.»

«Non sempre. Io e Diana… il nostro legame, insomma, ci ha sempre dato delle particolari percezioni.»

«E quando avete imparato a possedere le persone?»

Il poliziotto si accorse di essersi espresso in modo goffo, poteva sembrare una presa in giro, ma la ragazza non diede alcun segno di essersi offesa e continuò.

«Non lo abbiamo mai imparato. Le nostre facoltà erano del tutto innocue. Ci limitavamo a vedere delle cose.»

«Come quelle che ho visto io?»

«Qualcosa del genere. La prima volta è accaduto a un funerale di un nostro vecchio zio. Noi avevamo sette anni e in chiesa vedemmo lo zio sopra la sua bara, in piedi, era a mala pena un alone luminoso di forma umanoide, ma sapevamo che era lui, era spaesato, ricordo che quando la zia, sua moglie, scoppiò a piangere lui si guardò attorno come se qualcuno lo stesse chiamando. Dopo la funzione semplicemente l’alone di schiarì fino a disperdersi.»

«Vuoi dirmi che riuscivate a vedere i fantasmi?»

«Se preferisci vederla così. I nostri sensi combinati ci permettevano di percepire l’energia fondamentale degli esseri viventi, la loro coscienza. È qualcosa che è sempre lì, però non tutti riescono a vederla.»

«Tu e Diana invece ci riuscivate.»

Serena tirò su le spalle.

«Capisco – aggiunse Davide con poca convinzione – anzi, non è vero, non capisco niente. Ho visto delle cose… mi hai fatto vedere delle cose… quella visione di prima, ecco, non mi sembrava nulla di innocuo, era qualcosa di spaventoso.»

La ragazza si mortificò, abbassò lo sguardo, sul punto di mettersi a piangere. Le parole vennero fuori a forza.

«Quando Diana è morta… quando è stata uccisa è successo qualcosa di molto brutto. Qualcosa di così orribile da far sprofondare la sua mente in un abisso di tormento, la sua non è una mente normale, è una mente incredibile, capace di cose meravigliose… e cose terribili. Io l’ho vista, la osservavo in quel momento e non potevo fare nulla. La sua coscienza si è rivolta a un luogo di Oscurità che nessuna luce può schiarire, la Tenebra si è plasmata sulla forma del suo dolore e… le ha dato la forza per non dissolversi. La moto era lì ed è diventato il legame che la tiene ancorata al mondo dei vivi; si può dire che l’abbia posseduta. Ora brandelli di ombra tengono insieme i pezzi di quella che un tempo è stata la mia sorella gemella. Più tempo rimane in questo stato, più questa coscienza nata dall’Oscurità si sostituisce alla sua, la corrode un poco alla volta, e continuerà finché non l’avrà consumata del tutto, e avrà consumato anche Fausto Perchi.»

«E poi?»

«E poi toccherà a me. Le nostre coscienze sono legate in maniera indissolubile.»

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