Serena – parte 1

6 terribili verità – Quinta verità

«Non ci sono molti modi per superare una crisi di mezza età farcita da un matrimonio fallito ancora prima di partire. Uno di questi è una moto!»

Fausto l’aveva detto alzando un bicchiere di grappa alla fine di una cena con alcuni amici e ridendo alla faccia della sua ex moglie. Due giorni dopo si era comprato una moto. Si era trattato di una vera occasione. L’aveva trovata spulciando con pigrizia un sito di vendita auto/moto usate in provincia di Littoria; lo faceva spesso tanto per curiosare, guardava anche i siti di annunci immobiliari e di certo non si sognava di comprare una casa. Non pensava che avrebbe mai comprato neanche una moto, poi aveva trovato quell’annuncio, appena messo, 0 visite, 0 utenti interessati, il venditore, anzi la venditrice, si firmava solo “Serena”. Mentre faceva il numero di telefono si sentiva emozionato come un bambino, stava facendo una pazzia, ne aveva bisogno. Quando aveva chiuso la chiamata, dopo aver fissato un appuntamento per il giorno seguente, si era sentito un po’ stupido, lui non sapeva niente di moto, non sapeva andarci, non avrebbe saputo valutarla, Serena sembrava educata e disponibile, ma avrebbe potuto approfittarsi della sua ignoranza.

Decise di andare all’appuntamento portandosi dietro Guido, un suo amico meccanico. Serena si dimostrò la ragazza squisita che le era sembrata dalla telefonata, una gran bella ragazza tra l’altro, capelli lunghi e biondi, corpo slanciato e forme perfette, dai modi umili velati da una piccola ombra di tristezza che la rendeva ancora più affascinante, insomma, una di quelle ragazze in grado di far sentire a Fausto tutto il peso dei suoi quindici anni in più. Tanto era bella lei, tanto era bella la moto.

«Un gioiellino – gli aveva detto Guido dopo aver dato un’occhiata esperta alla due ruote americana – sembra che non sia mai stata portata fuori dal garage. Ha i suoi bei chilometri, ma ascolta, per quello che serve a te e per questo prezzo è un affare. Se non la compri tu, la compro io.»

Fausto si era aggiudicato forse il primo vero affare della sua vita. Qualche altro giorno per sbrigare le pratiche burocratiche e si era portato a casa il gioiellino, anzi, lo era andata a prendere con Guido, visto che lui ancora non era capace di guidarla. Aveva chiesto a Serena perché avesse deciso di liberarsi della moto.

«Non la so guidare» aveva risposto con un sorriso malinconico sulle labbra.

Al di là della coincidenza, era chiaro che si trattava di una risposta appena superficiale, ma era l’unica che lei volesse dare, né lui chiese ulteriori spiegazioni.

***

«C’ho messo un po’ per “domarla”, ma adesso… sapete, in sella a quella moto mi sento veramente vivo!»

L’aveva confessato Fausto qualche mese dopo, col solito bicchiere di grappa in mano ai soliti amici, dopo la solita cena, che non fu una delle solite cene. Finì presto, almeno per Fausto, era stato inquieto tutta la serata, aveva fatto battute e riso a quelle degli altri, sembrava tutto a posto, tutto tranquillo, tutto come al solito, tutto così… noioso e banale. Non attese di prendere neanche il secondo bicchierino, finì di dire quelle parole, uscì di casa senza salutare nessuno – come se il suo proclama di vitalità fosse stato sufficiente a giustificare ogni sua azione – e salì sulla sua moto continuando a ruminare a mente quell’ultima frase.

“Mi sento vivo!”

Lo pensava ancora Fausto mentre il suo cranio andava a schiantarsi a 100 a 150 chilometri all’ora contro uno dei Pini che corrono ai lati della via Appia tra Doganella e Tor Tre Ponti. Era bastato un attimo, un solo attimo di distrazione ed era stato sbalzato dalla sella della sua Sportster 883: la sua Harley-Davidson “quasi nuova”.

Forse aveva commesso un errore.

“L’ultimo della mia vita…” aveva pensato.

Quando aveva incontrato quel motociclista della domenica e la sua moto-mostro giapponese sulla Statale 7, aveva tutta l’intenzione di ignorarlo.

Anche se lo aveva superato.

“Sei lento! Vendi la moto e comprati una carrozzella!” sembrava dirgli.

In fondo era solo una delle tante sconfitte della sua vita.

Anche se gli era sfrecciato a fianco come se non esistesse.

“Ti sei perso il raduno dei cinquantini truccati?” sembrava prenderlo per il culo.

In fondo era solo l’ennesima offesa recatagli da qualcuno più capace di lui.

Avrebbe voluto far finta di nulla in fondo… in fondo questa volta non aveva trovato neanche un grammo di pazienza, solo rabbia. Aveva cominciato a scavare, in cerca di un po’ di rassegnazione, ma sotto il fondo polveroso della sua inettitudine aveva scoperto la vernice lucida del serbatoio della sua moto. E lei non era affatto d’accordo che lui lasciasse correre, sarebbe stata lei a correre per lui. Lui doveva solo forzare il polso e dare gas, al resto avrebbe pensato la sua Harley.

“Che cazzo sta succedendo?”

Fausto non riconosceva più i suoi pensieri, i suoi gesti, non gli appartenevano, erano del tutto nuovi, estranei. E lo facevano stare benissimo.

“Ssììììììì!”

Avrebbe vinto quella sfida. Proprio lui, l’inutile figlio senza capacità, l’inutile fratello senza compassione, l’inutile impiegato senza ambizioni, l’inutile genero senza un soldo, l’inutile marito senza palle, l’inutile Fausto che si svegliava la mattina solo perché la sveglia gli diceva di farlo. Poteva vincere. Poteva vincere! Alla faccia di tutti quelli che lo avevano sempre creduto un perdente senza possibilità. Il rombo del motore gli esplodeva nelle orecchie: la prima follia sensata in una vita di insulsa correttezza.

Alla faccia della sua ex moglie, che gli rinfacciava continuamente di essere un vecchio. In quel momento, mentre stava volando dritto verso la casa dei più, gli sembrava di essere fin troppo giovane, almeno per morire.

***

Il sogno era sempre lo stesso, una specie di ricordo inconscio inserito tra i ricordi coscienti, la scena di un film che si ripeteva in maniera ossessiva. Il suo corpo immobile, sospeso a mezz’aria, bloccato nel tempo e nello spazio, no, quasi bloccato, si avvicinava in maniera impercettibile alla corteccia increspata di un grosso albero, un millimetro alla volta. Con la stessa esasperante lentezza, una figura si andava formando oltre l’albero, era in grado di percepirla appena con la coda dell’occhio, una figura oscura, come una macchia offuscata sulla retina, un mucchio di stracci polverosi che si ergeva dall’ombra assumendo mano a mano una forma umanoide ammantata. La visione si interrompeva per ricominciare da capo nell’esatto momento in cui la sagoma si stava facendo abbastanza netta da rivelare il suo volto, solo una macchia più chiara al posto della faccia.

La sequenza infinita si interruppe quando il rumore conosciuto di parole prese il posto del fischio dell’aria nelle sue orecchie.

«A quella velocità è bastato un breve tratto di fondo stradale dissestato per mandarla fuori strada. L’inesperienza ha fatto il resto.»

La voce di fondo suonava come quella di uno che ti dice di smettere di fumare perché fa male e te lo dice mentre scarta il terzo pacchetto di sigarette della giornata, un dottore, o comunque a qualcun altro a cui non frega una sega di farti stare meglio.

«Non capisco perché certa gente si metta in testa di fare delle cose se non è capace.»

Fausto la sentiva a mala pena: le orecchie gli ronzavano, la testa sembrava dovesse esplodergli e tutto il corpo gli faceva così male da non permettergli di muoversi. E poi perché muoversi, quel letto d’ospedale era comodo come una nuvola del paradiso.

«È stato fortunato che il signor Morini abbia chiamato subito l’ambulanza.»

“Chi cazzo è il signor Morini?” chiese Fausto con le sopracciglia.

«Dicono che esista un codice non scritto dei motociclisti, una sorta di solidarietà su due ruote.»

Questa voce era diversa, una voce di ragazza, allegra e preoccupata, gli accarezzava i timpani come peluria di pesche i polpastrelli delle dita.

«Se lo dice lei…»

Finita la buccia di pesca ricomincia la carta vetrata, di nuovo lo stronzo in camice bianco. Inoltre se ha capito bene deve la vita al motociclista della domenica. Sarà una brutta convalescenza.

«A ogni modo suo fratello se l’è cavata solo con qualche osso incrinato e un gran brutto mal di testa.»

“Fratello?”

«E la sua moto non si è neanche fatta un graffio.»

“La Harley!”

«Grazie dottore.»

Il medico uscì dalla stanza facendo un cenno di autocompiacimento con la testa. A Fausto importava il giusto, tutta la sua attenzione era catturata dall’avvenente figura bionda che gli stava davanti e gli parlava, con consapevolezza e una spolverata di timore.

«Alla fine sei riuscito a domarla, vero?»

Un angelo dai tratti luminosi in jeans e maglietta attillata.

«Io non sono mai riuscita a imparare, complimenti.»

La ragazza si avvicinò avvolta da un bagliore irreale.

«Sai, quella risoluta era mia sorella.»

“Serena!”

«Lei era brava in tutto…»

Si chinò sul letto e gli diede un bacio sulla fronte, una pioggia di petali odorosi si sparse su tutto il cuscino catapultando Fausto in ricordi così vecchi da non poter essere richiamati razionalmente, era il profumo del seno della madre il giorno della sua nascita, il profumo della sua prima volta, era l’odore dei cipressi e dei rimpianti.

«Ti voglio bene, Fausto Perchi.»

Come ogni donna nella sua vita, anche lei, dopo averlo illuso, scomparve. Al suo risveglio Serena non era più lì. E forse non c’era mai stata.

***

«Come sarebbe a dire “sequestrata”?» urlò incredulo Fausto.

«Si calmi signor Perchi – disse il poliziotto con la pazienza dell’ambasciatore – è solo una cosa momentanea. Il motociclista che ha chiamato l’ambulanza ha sporto denuncia contro di lei.»

«Morini?» Fausto stava diventando rosso per lo sforzo di strillare.

«Esatto.»

«Che grandissimo figlio di…!»

«Signor Perchi – lo interruppe perentorio il poliziotto – Saprà che è vietato fare gare di velocità sulle strade, quindi…»

«Agente…» continuò Fausto riprendendo il controllo di sé.

«Montucci.»

«Agente Montucci, lei ha mai avuto un sogno? Immagino di sì. Beh, il mio sogno ha un nome, si chiama Harly-Davidson ed è quella moto!»

L’agente guardò nella direzione indicata dal dito dell’altro, dove però non c’era nulla. Quando se ne accorse, Fausto ritirò il dito.

«Il suo sogno rimarrà sotto sequestro fino a che il giudice non darà disposizioni differenti.»

«Ma lei lo sa quanto tempo ci ho messo a trovare una Harley usata in quelle condizioni?»

«Glielo ripeto, non posso farci nulla. È appena stato dimesso: si prenda qualche giorno di riposo e vedrà che si sistemerà ogni cosa. Intanto le ho chiamato un taxi.»

«Sa cosa può farsene del suo taxi, agente Montucci?»

Montucci non attese la risposta, scrollò la testa con tutta la pazienza conferitagli dall’indossare una divisa e rientrò nel commissariato.

Fausto invece non riusciva a credere alle sue parole. Un’infinità di volte aveva sognato di rispondere in questo modo a chi se lo meritava, ma aveva sempre desistito, la paura delle conseguenze era sempre stata più forte della possibilità di sentirsi un coglione, possibilità che si verificava ogni volta. Ogni “altra” volta. Si era sentito pervaso da una forza scatenata, aveva attinto a una riserva di coraggio e controllo di sé che non credeva nemmeno di avere. Un controllo tale da mettergli paura e convincerlo ad allontanarsi, ringraziando che ci fosse un taxi ad aspettarlo. E dietro il taxi una moto.

Allungò al tassista una banconota da 10 euro, per la chiamata e il disturbo, senza riuscire a scrollarsi dalla faccia l’aria da idiota, ma veramente non riusciva a credere ai suoi occhi. Sul marciapiede opposto, a ridosso di un palo della luce c’era una moto, una Sportster 883, la sua Harley.

“Peccato per il poliziotto – pensò – Ha voluto farmi uno scherzo e io mi sono pure incazzato con lui. Certo, che scherzo del cazzo. Secondo me non ha capito cosa ha detto il giudice. Boh, chi se ne frega.”

Attraversò la strada e montò sulla moto; facendo ruggire il motore si allontanò lungo il Corso, in direzione opposta a quella di casa sua.

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