6 terribili verità – Quarta verità
L’uomo cadde a terra tenendosi il ginocchio spappolato dal colpo di pistola.
«Scappa! Va’ via!» urlò mentre il mostro, di nuovo in piedi, avanzava verso Stella.
Poi con uno slancio afferrò le gambe dell’aggressore trascinandolo a terra in una lotta serrata.
Stella vide l’uomo mascherato colpire il volto del suo salvatore con il calcio della pistola. Scosse la testa, con le lacrime agli occhi, e fuggì. La paura, l’istinto, il rifiuto dell’orrore le gridavano di scappare, e lei lo fece. Corse per la via principale del borgo abbandonato, nel buio, fino a raggiungere la piazza, fino a vedere ai margini della stessa i contorni dell’automobile che poteva portarla in salvo; si fermò solo quando sentì un colpo di pistola riecheggiare nell’aria, lontano, proveniente dal luogo da cui era corsa via. Cadde il silenzio, totale, privo anche dei rumori che si immaginava dovessero esserci in un posto perso dall’uomo e riconquistato dalla natura.
Non era sola. Se ne accorse un istante prima che attorno a lei esplodesse la luce. Ne riconobbe a pelle l’origine, era circondata da riflettori, i cui fasci abbaglianti puntavano verso di lei. Si girò su se stessa, non sapeva dove andare, la luce la accecava e oltre poteva nascondersi chiunque.
“Dietro la luce c’è l’Oscurità.”
Le parole che l’uomo in grigio le aveva detto nel parcheggio le tornarono alla mente, cariche di implicazioni molto più angoscianti della prima volta che le aveva sentite, come se ne capisse solo in quel momento il reale significato.
Una sagoma scura cominciò a delinearsi, aumentando di spessore man mano che avanzava, emergendo a galla dal mare luminoso.
«Chi… chi sei?» chiese Stella.
«Stella.»
Era la voce di Raoul. Si mise a piangere e a ridere allo stesso tempo.
«Raoul, sei tu?»
La forma scura le parlava camminando lentamente nella sua direzione.
«Stella, non andare via.»
«Raoul, ero sicura che avessero preso anche te! – l’eccitazione la faceva urlare – Dobbiamo scappare!»
«No, Stella, dobbiamo restare, è inutile scappare adesso…»
«No, laggiù… quello che credevo un maniaco… Oddio! L’hanno ammazzato…»
«Devi rimanere…»
«Ma che cazzo dici? Chiama la polizia!»
Stella voleva solo piangere, abbandonarsi alla disperazione, non capiva, le regole del suo mondo, della sua mente, dell’esistenza erano state distorte e piegate a un volere malvagio e crudele, sentiva tutte le speranze scivolare via e venire assorbite dalla pietra polverosa sotto i suoi piedi, e con esse ogni grammo di energia residua.
«È troppo tardi…»
L’ombra umanoide era ormai abbastanza vicina da perdere la sua indeterminatezza e mostrare alcuni elementi distintivi agli occhi di Stella, seppure feriti dalla luce intensa. Pantaloni robusti, maglietta attillata e un volto rigonfio e deforme.
«È tempo di abbandonarsi…» disse infine l’uomo mascherato.
La ragazza non attese un’ulteriore conferma visiva, le ferite fresche sul suo corpo e nella sua mente le facevano troppo male per voler ancora prendere in considerazione l’idea di un confronto con lo psicopatico che l’aveva torturata.
Fuggì più veloce che poté in una direzione precisa. Sperò di non aver perso del tutto il senso dell’orientamento e si tuffò nella luce, ignorando il calore intenso. Passò di fianco a uno stativo che reggeva uno spot da esterni e per poco non inciampò sul treppiedi. Non si fermò a chiedersi perché anche la zona oltre la corona di riflettori fosse illuminata, aveva visto quello che cercava, l’automobile parcheggiata alla fine della piazza, e allungò una corsa disperata verso di essa. Aveva nelle orecchie il rumore di passi che solcavano la breccia alle sue spalle, ma ormai era arrivata, agguantò la maniglia della portiera e la tirò a sé.
Chiusa. Provò ancora e ancora, ma la macchina era chiusa. Era ovvio, nessuno lascia l’auto aperta. La macchina era chiusa. E lei era fottuta. Vide il riflesso mostruoso di una maschera comparire sul vetro impolverato del finestrino. Contemporaneamente un colpo fortissimo ai reni, un pugno, le tolse il fiato.
Una mano la prese per i capelli dietro la nuca e le sbatté la faccia sul finestrino, il dolore al naso fu seguito fa un fiotto di sangue abbondante fuori dalle narici. La stessa preso le strattonò la testa indietro e la affondò in avanti, costringendola a piegarsi fino ai fianchi sul cofano dell’auto. Non aveva più risorse fisiche e subì i colpi come avrebbe fatto un manichino. Quando l’uomo mascherato le strappò le mutandine e cominciò a muoversi dentro di lei, reagì per puro istinto. Puntò i piedi e con le ultime forze residue riuscì ad allontanare il mostro. Gusto il tempo di nutrire le sue false speranze, poi venne afferrata per il braccio appena sotto la spalla, provò a liberarsi, a difendersi dalla raffica di schiaffi sul volto. Non ci riusciva. Era impotente di fronte a quella violenza. Capì che la sua vita non le apparteneva più, era nelle mani di un folle senza pietà. Quando una manata la raggiunse sul volto cadde a terra, avrebbe voluto supplicare pietà, ma l’altro non glie ne concesse a sufficienza e cominciò a prenderla a calci. Ogni calcio la portava un po’ più vicina alla rottura, si stava spezzando. Quando smise di difendersi, l’uomo le si sdraiò sopra, le aprì le gambe con le ginocchia e la violentò emettendo brevi rantoli eccitati.
Stella non credeva più che tutto quello stesse accadendo a lei.
«È tempo di dimenticare…» disse la voce di Zorra.
Sentì le mani del mostro stringersi sul suo collo mentre abusava di lei, un piccolo fastidio, la gola occlusa, il respiro strozzato, i colpi ripetuti sulle anche, senza alcuna delicatezza o rispetto.
Presto la mancanza di ossigeno l’avrebbe anestetizzata da ogni sofferenza, non avrebbe sentito alcun male, il nulla dei sensi avrebbe risalito il suo corpo martoriato fino ad arrivare il cervello e lì avrebbe disgregato tutti i legami che ancora sostenevano la sua triste storia, avrebbe lasciato il suo passato in un’altra realtà e sarebbe rinata una nuova Stella, non sarebbe mai più stata la bambina maltrattata da una madre alcolizzata, non avrebbe più ricercato l’affetto nei corpi eccitati dei suoi compagni di classe, non avrebbe più tentato la fuga in sostanze che annebbiassero la sua coscienza, non avrebbe più pregato affinché l’immagine che di lei dava la telecamera fosse più convincente della vera se stessa. Non avrebbe più sofferto. In cambio doveva solo arrendersi.
«Io non voglio dimenticare» disse tra le lacrime.
Con uno sforzo enorme sollevò la mano cercando con le unghie la maschera del suo stupratore, la afferrò e la sfilò dalla faccia dell’uomo. La faccia di Raoul
«Io voglio vivere.»
Articolò queste parole con le labbra, senza però riuscire ad emettere alcun suono, non c’era più fiato in lei per parlare. Le mancava l’aria, si sentiva svenire, ma non svenne. Rimase riversa nel fango, con la schiena ferita dal brecciolino. Rimase lì e allo stesso tempo si sollevò. Osservava la scena da dietro le spalle di Raoul, lui che si muove sopra il suo corpo orribilmente spezzato di ragazza.
Si sentì attratta verso l’alto, oltre il cielo notturno, un turbine luminoso, composto da mille volute colorate, la invitava a lasciarsi tutto alle spalle a diventare parte di qualcosa di più grande, di definitivo, le prometteva uno scopo molto lontano dai pallidi desideri di gloria che aveva nutrito fino ad allora, la comunione assoluta, un senso inappagabile e profondo di utilità, le ragioni prime e ultime della vita e dell’esistenza. Là fuori c’era davvero qualcosa a cui valesse la pena contribuire. Capì che la realtà era una piccola scintilla nell’Oscurità come la prima stella che compare nel cielo notturna, aveva bisogno anche di lei per continuare a brillare. Avevano bisogno l’una dell’altra.
Sentì l’uomo venire dentro di lei, lo sentì anche se il suo corpo non le apparteneva più, si sentì sporca, violata, furiosa, marchiata dalla violenza e dall’odio.
Voleva vivere. Non se ne sarebbe andata nell’indifferenza che accompagna l’ennesima vittima della cattiveria umana. Voleva vivere. Oltre il benessere che l’annullamento nella luce le prometteva. Voleva vivere. Così tanto che chiuse gli occhi dello spirito alla luce e abbracciò l’Oscurità.
Quando Raoul ebbe l’ultimo sussulto, Stella già non si muoveva più da qualche secondo. Sfilò il membro dal suo corpo immobile e rimase sdraiato sopra di lei a riprendere fiato. Non si accorse nemmeno che un braccio sottile, coperto di lividi, stava scivolando verso la sua testa.
Lei lo abbracciò. In fondo gli era sempre piaciuto. La nuca nell’incavo del suo gomito, con forza sovrumana e spietata spinse la testa dell’uomo contro la sua e lo baciò. Raoul si agitava nel suo abbraccio, impotente, mentre lei gli mordeva il labbro inferiore. Serrò i denti ignorando le urla di dolore, strinse finché un lembo di carne non le rimase in bocca. Allentò la presa del braccio consentendo alla testa dell’uomo di alzarsi nel suo inutile tentativo di fuggire; ammirò il volto che aveva ridisegnato, con la fila di denti sulla mandibola esposti, inondati di sangue. Fece scivolare la mano dalla nuca, in una languida carezza che si spense attorno all’orecchio, le unghie penetrarono nella pelle e nella carne. Uno strappo laterale staccò il padiglione assieme a brandelli di carne e cuoio capelluto.
Raoul lanciò un urlo e rotolò di lato tenendosi la ferita con le mani e vide con orrore che la ragazza si stava alzando in piedi, i suoi occhi erano globi bianchi e lattiginosi che tracimavano melma scura, la stessa melma oleosa che le scendeva lungo le gote come lacrime di morte. Sorrideva, un sorriso famelico, a bocca aperta, un sorriso grottesco e malvagio che prometteva una giusta contropartita per la sofferenza subita.
Raoul urlò per tutto il tempo in cui Stella lo massacrò; gli martoriò ogni muscolo, gli strappò i genitali gli cavò gli occhi, gli frantumò le ossa. Continuò a urlare finché lei non gli infilò un braccio in gola scavando nel suo torace alla ricerca del cuore.
«Eeee ssstop!»
Stella si fermò, obbedendo al richiamo, ansimante, con il cuore dell’uomo stretto nel pugno. Dalle ombre della piazza emerse un ometto dall’età indefinita, vestito con pantaloni e maglietta nera a maniche lunghe, un paio di occhiali sottili che si ricalcò sul naso con il dito medio della mano sinistra, il pollice e l’indice della stessa mano erano stati amputati di recente.
Zorra avanzò verso Stella e si fermò a un passo dal suo ghigno diabolico, anche lui sorrideva, per il compiacimento e per l’eccitazione.
«Molto bene, mia cara, sapevo che non mi avresti deluso.»
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