6 terribili verità – Terza verità
Mi svegliai in preda a un attacco di tosse. Ero disteso in camera da letto e sentivo la febbre bruciarmi la fronte e gli occhi. Non mi sentivo debilitato però, anzi, ero pervaso di energia e, nonostante l’esperienza a cui avevo assistito, ero lucidissimo. Non che un pazzo non possa essere lucido, pensai che l’orrore doveva aver minato a tal punto la mia sanità mentale da farmi cadere in una sorta di anestesia emozionale, non provavo niente, almeno non quello che avrei dovuto, non sentivo neanche la fatica. Con foga mi misi a chiamare Sara e a cercare per tutta la casa tracce della sua presenza. Se n’era andata, senza prendere nulla se non l’interno della culla, materassino e biancheria comprese. Doveva aver anche ripulito lì attorno, non c’era più alcun segno di quello che era successo. Anche Filo era scomparso.
Fu allora che mi decisi ad andare di corsa all’abitazione di Davide. Non so perché pensai di poter ottenere in quel modo le risposte che cercavo, anziché rivolgermi alla polizia, come avrebbe suggerito la ragione in qualsiasi altra circostanza. Fu un gettito d’istinto più che un’intuizione, qualcosa mi spingeva verso il mio amico.
Forse le menti che nel medesimo tempo si affacciano a guardare sotto il primo strato della realtà, in basso, sporgendosi oltre il baratro della follia, riescono a scorgersi alla fine dell’oscurità e a comunicare tra loro. Era assurdo, me ne rendevo benissimo conto, ma la ragione non era più il metro di giudizio valido per quello che stavo vivendo.
La casa di Davide, una piccola villetta piuttosto isolata ai margini della città, portava i segni di un abbandono totale, sembrava disabitata da mesi. Solo una fioca luce oltre le imposte chiuse al piano superiore contraddiceva le apparenze. Suonai più volte al citofono di fianco al cancello, senza ottenere alcuna risposta.
Decisi di scavalcare e per poco non finii impalato sulle punte che ornavano l’inferriata. Caddi oltre la recinzione sbattendo con violenza il fianco sulle mattonelle di cemento che formavano il vialetto. Faceva un male cane e la gamba era tutta intorpidita, ma la finestra del primo piano era illuminata, qualcuno era in casa, e se si trattava di Davide dovevo vederlo. Mi alzai in piedi come meglio fui in grado e zoppicando arrivai alla porta. Era chiusa. Le grate interne delle finestre al pian terreno invece erano stranamente aperte. Ruppi i vetri con un grosso ramo che trovai nel giardino, facendo attenzione a non lasciare spunzoni sul telaio con cui potessi ferirmi, ed entrai.
Un fetore disgustoso appestava l’ambiente e mi aggredì le narici come vapori acidi, tossì e per poco non vomitai.
Salii le scale e percorsi il corridoio fino allo studio di Davide. La porta era socchiusa, la spinsi lentamente avanti e vi infilai prima la testa e le spalle per dare un’occhiata. La stanza era come la ricordavo, quello che un tempo mi era sembrato elegante e ora era solo decadente, rischiarata a stento da una lampada da tavolo poggiata sulla scrivania, dietro cui sedeva il mio amico, in ombra, immobile.
Davanti a lui, sul piano della scrivania, illuminato dalla luce della lampada, c’era il quaderno che avevamo trovato quella notte nel rifugio. Le pagine macchiate da chiazze e da strisciate rosse; il rosso scuro, quasi marrone, del sangue secco.
«Fa male…»
La voce di Davide, bassa, appena un sussurro, riconoscibile a stento, mi fece trasalire.
«…non riuscivo a fermarmi… ho letto, e ho capito…»
Le parole erano disarticolate, pronunciate con estremo affanno; l’ombra era ancora immobile, come se parlasse senza muovere la bocca.
«Di che cosa stai parlando?»
«…è sbagliato…»
«Davide, ascolta…»
Mi avvicinai al centro della stanza girando attorno alla scrivania affinché fosse messo in luce dalla lampada. Le parole mi morirono sulle labbra.
Il corpo di Davide era abbandonato sulla sedia, nudo, deforme e livido, coperto di piaghe e di ulcere purulente, che come oscene vagine partorivano incessantemente grassi vermi e altri orrori brulicanti. Nelle dita della mano destra, gonfie per le infezioni, era ancora stretto il manico di un coltello. Uno di quei coltelli da bistecca con la lama ricurva e seghettata. Aveva inciso la sua stessa carne in profondità, decine di volte, secondo dei motivi geometrici regolari. Non curate le ferite si erano infettate e erano andate in suppurazione. Doveva essere in quello stato da giorni. Nonostante questo era ancora vivo, impossibilitato a muoversi, ma vivo.
Continuò a parlare muovendo la lingua nera e cancerosa tra le labbra tumefatte. Io ero paralizzato.
«Ascoltami… – disse – non rimane molto tempo… Paola è morta poco dopo quella notte… un cancro improvviso e inarrestabile. Le ha consumato gli organi interni e poi il cervello… Da quel momento, per mesi, come un ossesso, ho studiato… leggi anche tu…»
In quel momento non pensai a chiamare un’ambulanza, Davide per me era spacciato, davo per scontato di star parlando con un uomo morto, non c’era cura possibile per il male che lo affliggeva. L’unica cosa che potevo fare era assecondare le sue richieste. Presi il quaderno e cominciai a leggere.
Non era un diario, non c’era nemmeno il racconto o la cronaca dei fatti accaduti, le scritte originali erano brevi frasi, appunti operativi, con annessi numeri e nomi, brevi liste di cose da fare, un quaderno di lavoro insomma, molto disordinato. I punti meno comprensibili erano stati annotati da Davide, con calligrafia sempre più confusa.
Si riusciva a capire che qualche evento meteorologico aveva fatto crollare il terreno e aperto l’entrata al “piccolo abisso” – così veniva indicato il buco nel quale ero quasi caduto, vicino al rifugio abbandonato – qualcuno aveva trovato dei reperti, o qualcosa del genere, e aveva venduto l’informazione al redattore del quaderno, che aveva effettuato un sopralluogo e riconosciuto i pochi resti come appartenente a qualche antica cultura. Esplorando l’abisso, che secondo gli appunti si inoltrava nella montagna per centinaia di metri, aveva rinvenuto un deposito di urne cinerarie. Seguono alcuni calcoli sul possibile valore al dettaglio per singolo pezzo e alcuni recapiti di, credo, trafficanti di reperti archeologici. Nelle settimane successive ha messo su una squadra di tombaroli e ha cominciato le estrazioni. Ha catalogato ogni singolo vaso tirato fuori dall’abisso, quelli che abbiamo visto anche noi sugli scaffali, con tanto di disegni delle forme e delle decorazioni. L’ultimo disegno era stato cancellato da un tratto di penna. Doveva trattarsi dell’urna che abbiamo trovato rovesciata in terra. Alcune pagine successive erano state strappate e le ultime 20-25 pagine del quaderno erano occupate da scritte e simboli disposti su due colonne ottenute piegando in due i singoli fogli. Nella colonna di sinistra erano ripetute per ogni riga le lettere TREMENDUMVERITATERRIBILE.
Tremendum. Verità. Terribile.
Le stese parole che ripeteva inconsciamente Davide quella notte. Nella colonna di destra erano disegnati simboli continui e dall’aspetto labirintico, una combinazione di elementi geometrici fissi diversa per ogni riga.
«Ha capito… alla fine ha capito cosa avevano liberato e cercava il codice, la combinazione…»
Davide rispose alla mia domanda inespressa sul significato di quelle pagine e così facendo aprì la strada a un interrogativo ancora più inquietante: combinazione per cosa?
«Mentre la cercava… la bestia, il Mara ha preso i suoi compagni… ha spento la luce nel sangue… è risalito dall’abisso…»
Sapevo che non stava più parlando del buco nel terreno.
«L’ha trovata… su se stesso… ha riscritto il sigillo nel dolore e nel fuoco… non ha fatto in tempo…»
Eravamo incappati nei resti di un rituale satanico uscito male. Quello aveva un senso, ma tutto il resto non ne aveva.
«Cosa c’entriamo noi con questo?»
«Il fato. No! Il caso… la probabilità… siamo prigionieri di una bolla di luce schiacciata dall’Oscurità… Loro hanno spezzato il sigillo, hanno liberato il Mara… noi l’abbiamo portato qui fuori… siamo parte del sigillo… senza di noi sarà libero, per questo ci ha preso… mi ha preso… ha preso Sara…»
Sara! Ero andato lì perché Sara se n’era andata! Perché Samuel… Scattai verso Davide e gli urlai contro.
«Dov’è Sara? Cosa le è successo?»
Davide continuò a parlare come se non si fosse accorto di nulla, proseguì il suo discorso registrato senza la minima alterazione, un roco sussurro.
«La combinazione… prima che la Tenebra ti prenda devi riscrivere il sigillo… e chiudere la porta dell’abisso… ho scritto come sul mio taccuino…»
Non capivo quello che mi stava dicendo, non mi importava, mi rifiutavo di sentirlo, piangevo e continuavo a ripetere il nome di mia moglie.
«Sara… Sara…»
«Se anche lei è scesa nell’abisso… dovrai salvarla…»
Il discorso era finito, Davide sembrò riacquistare un minimo di lucidità, gli occhi infetti, probabilmente ciechi, ruotarono lentamente nella mia direzione, le dita della mano sinistra ebbero un sussulto e io le presi tra le mie.
«Sono bloccato così da giorni – aggiunse poco dopo – sento il cancro consumarmi le ossa e le giunture… fra poco non potrò più parlare… fa male… Ma non mi lascia morire… Ti prego, salvami…»
Intuendo la verità dietro la calma pietosa di quelle parole mi staccai da lui e scrutai tra le ombre dello studio, alla ricerca di un nemico in agguato.
«Nel cassetto della scrivania… – continuò con sempre minore energia – il taccuino… e una pistola… Ti prego Marco, non farmi prendere dal Mara. Ti prego uccidimi!»
Davanti a me non c’era più un essere umano, un amico, era solo un manichino di carne putrefatta. Continui a ripetermelo mentre mi avvicinavo a lui per aprire il cassetto. C’era quello che aveva detto. Presi il taccuino e lo infilai nella tasca della giacca e presi in mano la pistola. Non ne avevo mai utilizzato una, ma non avevo molti dubbi su come utilizzarla, finché non ci provai.
«Non ci riesco… – dissi – Non posso spararti.»
Non ci riuscivo davvero, ero ancora un essere umano, io, e nonostante la pietà che provavo per lui non potevo abbatterlo come un cane sofferente.
«Fallo… Ti prego…»
Gli occhi di Davide erano due biglie dai riflessi lattiginosi, eppure mi pregavano con tutto quello che di umano era rimasto in lui.
«Davide io…»
«Fallo!»
Il grido sembrava provenire dal fondo di un pozzo, invece era la sua bocca distorta ad averlo emesso. Come fosse comandato da fili invisibili, quella carcassa si mise in piedi con tremenda fatica, animato da una forza che non poteva provenire dai suoi muscoli putrefatti.
«Tu devi uccidermi!»
Con movimenti dinoccolati e pesanti avanzava verso di me, spingendo mobili e suppellettili al suo passaggio come fossero fatti di paglia. La lampada si ruppe quando rovesciò di lato la scrivania. Con l’ultima scintilla di luce vidi che aveva cominciato a piangere, lacrime di sangue sgorgavano dagli occhi mentre ruotavano verso l’alto fino a scomparire nelle orbite tumefatte.
«Non avrò mai pace!» gridò.
Mi spinse con entrambe le mani e mi gettò di peso oltre la porta, sul pianerottolo, e quando mi ripresi dal colpo quella cosa mi era già addosso. Mi prese per la giacca e avvicinò il suo volto torturato al mio.
«Conosco… la Verità… Terribile!»
Preso dal panico cominciai ad agitarmi, a colpirlo e a scalciare, non so come ma riuscii a staccarlo da me e a spingerlo contro la balaustra delle scale. La sua spina dorsale si spezzò ad angolo retto, come un listello di balsa, e precipitò al piano di sotto.
Fuggire a quel punto sarebbe stato inutile, non potevo sfuggire all’orrore, dovevo affrontarlo. Scesi le scale e lo vidi accartocciato sul pavimento, sotto di lui una chiazza di umori nerastri. Contorto e immobile, appena riconoscibile come essere umano, Davide era ancora vivo. Muoveva la bocca senza emettere alcun suono e rivolgeva verso di me i pozzi oscuri che un tempo avevano ospitato il suo sguardo allegro. Con le lacrime agli occhi girai il volto dall’altra parte e puntai la pistola contro la sua testa.
Commenta