Giù nell’abisso – parte 2

6 terribili verità – Terza verità

Ci svegliammo all’unisono a causa di un violentissimo attacco di tosse di Laura. La trovammo seduta, con la schiena piegata in avanti e scossa da colpi così violenti da far temere che potesse spezzarsi in due da un momento all’altro; il volto era cianotico a causa della difficoltà a respirare, gli occhi strabuzzavano fuori dalle orbite, per lo sforzo e il senso di soffocamento. A ogni colpo un piccolo fiotto di sangue usciva dalla bocca già tutta bagnata di rosso, per lo sforzo le si erano già rotti capillari del naso e ombre scure disegnavano profonde occhiaie umide di lacrime.

Aveva bisogno di urgente aiuto medico. Dai vuoti lasciati dalle assi divelte alle finestre filtrava la luce fioca di un primo mattino uggioso, non si sentiva più il rumore della pioggia, solo quello di Filo che grattava sulla porta e uggiolava per uscire.

Davide provò a far bere a Laura qualche sorso e le ripulì il sangue con un fazzoletto, ma lei si agitò a tal punto, gettando tutto in terra, che fummo costretti ad alzarla di peso e a portarla fuori. Nell’uscire raccolsi la bottiglia d’acqua caduta, pensando che poteva ancora servire, e il fazzoletto. La stoffa bianca era tinta di denso muco scarlatto e di pus.

Fuori dal rifugio trovammo il buco che aveva cercato di inghiottirmi la notte prima; mi avvicinai per dargli un’occhiata mentre Paola riprendeva un po’ fiato.

Il Monte Semprevisa è composto da rocce calcaree, come tutta la catena dei Lepini del resto, e i fenomeni carsici fanno parte delle sue caratteristiche, per cui non è raro trovare pozzi come quello, vere e proprie voragini verticali, detti anche “abissi”, che poi si slargano in grotte sotterranee. Avevo sentito parlare dell’Abisso Consolini, vicino la vetta, ma non ci ero mai stato.

Anche questo abisso anonimo doveva aver attirato l’attenzione di qualcuno che aveva lasciato le tracce di una certa attività di esplorazione, come cavi d’acciaio, verricelli, ecc. Tutto in evidente stato di abbandono da molto tempo.

Quando Paola si sentì in grado di camminare ritornammo sul sentiero principale e, in un tempo che sembrò infinito, tornammo alla casa di Bassiano poco prima che lei perdesse conoscenza.

Chiamammo l’ambulanza e Davide andò con lei in ospedale, noi invece tornammo a Littoria e passammo la giornata ad attendere notizie che non arrivarono mai.

 

***

 

Davide avrebbe dovuto tenerci aggiornati, ma non lo fece, rifiutò ogni nostra telefonata, non rispose mai alle mie e-mail; e così anche Paola. Sarei potuto andare a casa loro, ogni tanto sentivo l’impulso di farlo. La voglia di dimenticare quell’episodio era però così forte che mi trovai a benedire il suo ostinato silenzio. Poco dopo, inoltre, io e Sara cominciammo i preparativi per la nascita di Samuel, le nostre abitudini sociali si modificarono e passò in secondo piano anche il fatto che stavano trascorrendo dei mesi senza che vedessi o sentissi uno dei miei migliori amici.

Benché nulla lo lasciasse presagire, il parto si rivelò estremamente complicato: il bimbo non riportò conseguenze, stava benissimo, Sara invece perse molto sangue, rischiò di perdere conoscenza e i medici furono costretti a ricoverarla per tenerla in osservazione.

Tornò a casa abbastanza presto, con l’unica indicazione di riposare molto. Passarono altri due mesi prima di quella maledetta sera e Sara sembrava stare ogni giorno un po’ peggio. Passava sempre più tempo dormendo, quando le parlavo cercava di tranquillizzarmi, ma era chiaro che la sua mente era altrove. Mi convinsi che la depressione post-partum aveva mietuto un’altra vittima, così decisi si dedicare a lei, a loro, ogni momento libero della giornata, anche se i miei sforzi sembravano inutili. Arrivai a trascurare persino il cane, a cui avevo sempre voluto un gran bene. Più Sara peggiorava, più lui diventava lunatico e irascibile, cominciò a somatizzare il suo malessere con una brutta dermatite, il pelo gli cadeva a ciocche sostituito da piaghe rossastre; negli ultimi giorni si rifiutava addirittura di fare la passeggiata mattutina, quasi avesse timore della luce del sole, e faceva i suoi bisogni dove capitava in casa.

Fu con un episodio del genere che ebbe inizio la fine. Dalle feci di Filo sul tappeto in soggiorno brulicavano lunghi e sottili parassiti intestinali e trattenni a stento i conati di vomito mentre cercavo di raccoglierle. Quando il tanfo divenne intollerabile mi alzai e mi sfogai con uno scatto d’ira contro il cagnolino, solo che Filo non si mortificò come faceva sempre quando veniva sgridato, al contrario ringhiò e provò a mordermi, per poi scappare in camera e saltare ai piedi del letto dove stava riposando Sara.

La stranezza del suo comportamento mi mise a disagio, ma più di tutto temevo che potesse fare del male a mia moglie o a Samuel. Mi sporsi per controllare, ma dalla porta aperta non notai nulla di strano, vedevo Sara sdraiata sul letto, Filo accoccolato tra i suoi piedi e la culla attaccata al fianco del letto. Ero stanco e la stanchezza mi faceva perdere la calma; mi ripromisi di andare dal veterinario il giorno appresso e finii di pulire il pavimento. Approfittai dello stato di quiete del resto della famiglia per riposarmi un po’ anch’io; non era mia intenzione addormentarmi, me ne accorsi solo quando fui destato da un vagito disperato. Pensai che Samuel si fosse svegliato affamato, così andai in cucina per preparargli il biberon. Sara lo prendeva e lo calmava ogni volta, ma diceva che non se la sentiva di allattare.

Ormai era diventata una prassi, mi faceva anche piacere tenermi occupato in quel modo. Il tempo di scaldare il latte e mi infilai in camera.

Il biberon mi cadde dalle mani. Mi sembrò di sentire l’anima che si dimenava dentro di me per fuggire dall’orrore che la minacciava direttamente attraverso gli occhi, finestre rotonde che lasciano uscire tanto quanto lasciano entrare.

Sara era seduta sul bordo del letto con lo sguardo vacuo. Filo, nella culla di Samuel alzò il muso nella mia direzione, grondava sangue e tra i denti penzolavano liane di carne viva, le viscere di un neonato; i suoi occhietti da cane, che conoscevo tanto bene, con l’iride grande e marrone, erano completamente bianchi, rigirati fino in fondo oltre le palpebre, sconosciuti, alieni, da cui scendevano rivoli di sangue che inzuppava il pelo ai lati del muso e si andava a mischiare col sangue che lordava il petto della piccola bestia.

Non riuscivo a respirare, non riuscivo a parlare, il cervello era andato in blocco. Sara si alzò in piedi e cominciò a venirmi incontro mentre il cane tuffava il muso nel suo pasto aberrante, di cui non sentivo i rumori poiché le orecchie percepivano solo un fischio ovattato, ma osservavo quella bestia immonda strappare brandelli di carne uno alla volta. Cominciai a tossire furiosamente. Alle immagini di Sara che mi veniva incontro si sovrapposero quelle di tunnel giganteschi, freddi e umidi dove si allunga minacciosa un’ombra enorme e densa. Poi venne il buio e il silenzio. In qualche modo ero ancora cosciente, solo che le ombre avevano invaso ogni cosa, erano cresciute, si erano gonfiate, prima negli interstizi più remoti della stanza, sotto i comodini, negli angoli sopra l’armadio, dietro la libreria, erano uscite dai muri e dal pavimento coprivano tutta la visuale e il fischio si era trasformato nel rumore di fondo dell’aria che sbatte e corre via dalle orecchie nel corso di una lunga caduta da un burrone.

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