Quando calano le tenebre – parte 8

6 terribili verità – Seconda verità

Ci svegliammo tutti assieme; poteva essere l’alba come qualsiasi altra ora del giorno. Il cielo era completamente coperto di nubi lontane e fumose, si muovevano, entravano l’una nell’altra, lentamente, si avviluppavano su loro stesse in spirali e vortici, rimanendo sempre compatte e illuminate da qualcosa dietro che non era il sole, non poteva essere il sole perché le tingeva di rosso cupo e si spandeva ovunque allungando e ritraendo i suoi lampi cremisi. Le nuvole avvolgevano ogni cosa, confondendosi all’orizzonte con la nebbia, fitta e spessa che serrava la sua morsa sulla Monfalcone e sulle nostre gole rendendo difficile anche respirare, l’unico effetto positivo della nebbia era che copriva il mare di carcasse sotto di noi, anche se il puzzo di morte era inestinguibile.

Eravamo ammassati attorno all’idolo, come quando ci eravamo coricati, e avevamo fatto tutti lo stesso sogno, non ci fu bisogno di chiederlo, lo sapevamo e basta, perché ci eravamo visti e riconosciuti tutti lì, nel sogno intendo.

Nel cuore della notte stavamo uscendo in processione da una specie di tempio colossale, costruito secondo strane teorie architettoniche, scavato direttamente nella roccia. Attorno a noi c’erano altre creature, il loro aspetto, i lineamenti del loro volto soprattutto portavano all’esasperazione tutti i tratti virili al punto da risultare animaleschi, sebbene camminassero erette e solenni, con la dignità propria di un popolo antico ed evoluto: degli uomini-scimmia dalla pelle olivastra, scura e coriacea. Il loro aspetto era sicuramente strano, ma non mi destò alcuna curiosità perché era il mio stesso aspetto, ero uno di loro e mi stavo recando in processione sulla scogliera salmodiando una cantilena impossibile da riprodurre. Mi trovavo in fondo al corteo, per cui cercai di portarmi avanti per vedere cosa sarebbe successo e solo allora capii il perché di quel sogno.

Sul limitare della scogliera era infisso un alto palo istoriato con simboli propiziatori; legato con la schiena al palo c’era uno di noi, non riuscivo a capire chi fosse, ma ero sicuro che fosse uno degli uomini addormentati sulla Monfalcone – la sua versione in quel sogno – sembrava drogato, continuava a far ciondolare la testa mormorando qualcosa, senza alcuna intenzione apparente di ribellarsi al proprio destino. Uno stuolo di creature scimmiesche circondava a una certa distanza il palo, illuminando lo spiazzo con delle torce. Davanti al palo una di loro si rivolgeva al mare oltre la scogliera gesticolando e lanciando verso il cielo urla oscene, ai suoi fianchi altre due creature, della stessa specie, però più grosse e grottesche, servivano l’officiante del rito. Mi ricordarono Ogre e mi parve anche che per un momento una di loro voltasse il mento per guardarmi quando i portatori delle torce cominciarono ad arretrare: i capelli lunghi erano tirati indietro, così vidi sul volto allungato da caprone due occhi sporgenti e distanti tra loro su una fronte bassa e sfuggente.

Man mano che il tempo passava la luce si faceva sempre più debole sulla scogliera, le torce ardevano ancora lì, la nebbia aveva risalito lo strapiombo e stava dilagando per il promontorio; avvolse le fiamme e le ridusse a lumicini che consentivano a stento di individuare il palo e la vittima che vi era legata. La coltre bianca si espandeva e si ritirava a intervalli regolari, si muoveva verso di noi come avrebbe fatto una gigantesca lumaca e poco a poco fagocitò il predestinato celandolo alla nostra vista, per sempre.

Con la nebbia scese una calma innaturale su tutta la scogliera, sentivo i nostri respiri cavernosi e nient’altro, poi neanche più quelli. Ognuno di noi si trovò isolato dagli altri e immerso nel nulla, nel vuoto dei sensi.

Finché non cominciarono le urla.

Provenivano da qualche parte nella nebbia; attutite, confuse, strazianti, mutarono poco a poco in una risata isterica e agonizzante, per poi lasciare di nuovo spazio al silenzio. La nebbia si tinse di rosso, striature e volute cremisi intorbidivano la coltre bianca risalendo venature fluttuanti; qualcosa di simile a una goccia di inchiostro versata nell’acqua.

Uno dei colossi, così simile a Ogre, avanzò fino a scomparire nella foschia; noi eravamo tutti in attesa e quando uscì dalla nebbia capii di cosa: teneva nella mano sinistra, davanti a sé, una testa rinsecchita, prosciugata, la testa strappata dal collo della vittima legata al palo.

La folla di creature alzò al cielo le sue grida di esultanza perché il rito aveva avuto successo – lo feci anch’io, ero uno di loro, vittima delle mie pulsioni e dei miei istinti – e dal cielo qualcosa rispose, qualcosa di enorme, così grande da non essere distinguibile dall’immensità del cielo. Si muoveva verso di noi da distanze inimmaginabili, o, al contrario, la Terra stava cadendo in un buco nero.

Gli strilli e le urla isteriche continuarono a risuonarmi nelle orecchie anche quando mi ritrovai di nuovo sul ponte della Monfalcone; erano reali e provenivano senza dubbio dalla prua della nave. Non riuscivo a vedere il punto esatto, c’era troppa nebbia e le saette che crepitavano tra le nuvole non gettavano un filo di luce.

Appena mi fui ripreso chiesi a due marinai di venire con me per vedere cosa stesse succedendo. Gli altri sembravano intontiti, respiravano a fatica, qualcuno in preda a forti tremori, più di uno perdeva sangue dal naso. Per quanto mi riguarda avevo una forte emicrania e il battito accelerato; sperai di non avere anch’io gli occhi infossati come gli altri, le loro facce cominciavano ad assomigliare a dei teschi. Scacciai quel pensiero e tornai a occuparmi delle urla: qualche marinaio, muovendosi al buio poteva aver avuto un incidente, così accendemmo una candela e ci staccammo dal gruppo.

Mentre avanzavamo, le urla divennero dei sussulti, un pianto disperato e infine dei singhiozzi sommessi. Allo stesso tempo l’emicrania e la tachicardia si attenuarono, a differenza del freddo che cominciò a far male quasi subito.

I gemiti che udivamo erano del capitano; lo trovammo rannicchiato in posizione fetale, i lineamenti contratti in uno spasmo d’angoscia, i denti snudati, gli occhi sbarrati fissi nel vuoto, era madido di sudore e tremava con violenti scatti. Sarebbe morto congelato se non fosse stato avvolto da una coperta di lana tra le braccia enormi di Ogre, inginocchiato accanto a lui nel tentativo di calmarlo. Ci accorgemmo di lui, in realtà, solo quando si mosse; girò il volto nella nostra direzione come se ci avesse notato appena.

«Ha visto qualcosa» disse.

Poi lo prese in braccio come se fosse un bambino e lo portò vicino alla cassa, dove si calmò e cadde in un sonno da cui si sarebbe svegliato solo alcuni giorni dopo.

Risolto l’enigma delle urla eravamo tornati nell’imbarazzo di decifrare il sogno che avevamo vissuto tutti e, almeno per me, il dubbio ancora più angosciante su cosa avesse visto il capitano di così orribile da ridurlo in quello stato.

Cosa che, tra l’altro, ci aveva lasciato senza l’unica figura di effettiva autorità a bordo. L’ufficiale in seconda, Augusto Richelli, infatti era andato nel panico all’idea di dover prendere il comando in una situazione così critica e Pietro ne aveva approfittato per farsi avanti.

Secondo lui eravamo entrati in contatto con lo Spirito del Mare, il dio che in verità pregano tutti i marinai quando salpano con le loro navi e quando sulle acqua cala la notte, un’intelligenza superiore che da sempre dispensa ricchezze e crudeltà ai coraggiosi che solcano gli oceani; il sogno non era altro che un manuale di istruzioni, se lo avessimo seguito ci saremmo mostrati riconoscenti con la divinità che ci aveva fatto dono dell’idolo, l’icona dell’antico uomo che simboleggiava la capacità dell’essere umano di mediare con lo spirito, di fondersi con lui e di raggiungerlo, di comunicare con lui e di richiederne i benefici: la stessa capacità che ci sarebbe stata data se avessimo effettuato i sacrifici richiesti.

Non tutti avevano seguito il suo ragionamento, la maggior parte erano soltanto così provati nel corpo e nello spirito da assecondarlo come se fossero privi di volontà.

Io stesso capivo che c’era qualcosa di terribile e umanamente sbagliato nelle sue parole, ma la domanda che mi perseguitava in quel momento era “che altro fare?”. La disperazione ci spingeva a credere a qualunque cosa ci fosse stata detta con convinzione.

Non ci ribellammo; questa fu la nostra prima colpa. Pietro e il Sordo decisero che bisognava fare un palco rialzato con delle casse di legno al centro del quale alzare una colonnina di casse sovrapposte per adagiare l’idolo, libero di guardare in mare aperto; e così facemmo. Nell’oscurità totale e nella nebbia che circondavano e invadevano la nave, la testa era comunque visibile, anche da grande distanza, come se fosse avvolta da un alone fiammeggiante.

Non dicemmo nulla neanche quando Pietro comunicò che era venuto il momento di sorteggiare il primo di noi che si sarebbe sacrificato “allo Spirito del Mare”. Una proposta che fino al giorno prima ci sarebbe apparsa assurda, folle e criminale, in quella situazione vide come risposta solo dei cenni di assenso e delle facce rassegnate: in fondo tutti avevamo fatto lo stesso sogno quella notte.

Pietro tagliò da una scopa una manciata di setole e ne contò ventuno, una per ognuno dei presenti, esclusi il capitano e il cambusiere ferito. Non lo disse, ma era ovvio che le vittime dovessero essere in discrete condizioni di salute mentale e fisica. Ne mozzicò una per accorciarla e la rimise tra le altre, mentre ci stringevamo attorno a lui. Ogre invece rimase in disparte, immobile, con le braccia lungo i fianchi, appoggiato al parapetto, mezzo celato dalla nebbia.

Qualcuno disse che dovevamo sacrificare proprio lui, senza sorteggiare, perché tutti i problemi erano cominciati da quando era salito a bordo della Monfalcone. Pietro sembrò felice che l’idea fosse venuta a qualcun altro; invitò Ogre a dire la sua, lo sfidò a difendersi, senza ottenere alcuna risposta e neanche un cenno di movimento, così subito dopo diede l’ordine al Sordo di distribuire gli arponi e le accette ammassati dentro una cassa aperta lì vicino.

Solo Richelli si oppose, non alla distribuzione delle armi, che ormai stava già avvenendo, quanto al prendere Ogre come capro espiatorio.

«Non ha alcun senso prendersela con lui – obiettò – No, si farà come abbiamo stabilito, a bordo della Monfalcone non verranno uccisi uomini per vendetta… Faremo solo quello che è necessario… Quello che ci è stato indicato. E poi… avete visto tutti che ruolo aveva nel… sacrificio… sulla scogliera…»

A queste ultime annotazioni i marinai sembrarono colti da una sorta di timore superstizioso. Pietro sembrava in difficoltà: l’autorità appena rubata era messa in pericolo. Faticava a trattenere la rabbia, eppure anche lui, come tutti noi, aveva visto quelle creature partecipare al rituale. Alla fine sfoderò ancora il suo sorriso maligno.

«Va bene – disse – sono d’accordo, non saremo noi a decidere, sarà il destino a scegliere.»

Dicendo così allungò verso di lui il pugno in cui stringeva le pagliuzze. Ogre rispose solo piegando leggermente la testa nella sua direzione. Se ne stava lì fermo, ma pensai che da un momento all’altro sarebbe andato da Pietro e l’avrebbe ammazzato. Dovette pensarlo anche Pietro, perché rinunciò al suo sorriso, distolse lo sguardo e si rivolse a noi.

«Se non vuole pescare – disse – lo faremo noi per lui. Chi vuole farlo?»

Dato che nessuno si muoveva, mi feci avanti io e pescai per lui una pagliuzza lunga. A seguire pescarono tutti gli altri, tutti pagliuzze lunghe, finché non rimasero solo Pietro, ghignante, con due pagliuzze che spuntavano dal suo pugno chiuso e di fronte a lui Richelli, che tremava come una foglia. L’ufficiale in seconda estrasse per primo, la sua era la pagliuzza corta, rimase a fissarla sconvolto mentre l’altro mostrava a tutti l’ultima pagliuzza, lunga, a testimonianza della sua salvezza.

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