Quando calano le tenebre – parte 7

6 terribili verità – Seconda verità

La candela era quasi sul punto di spegnersi, la fiamma tremolò e le ombre dietro di noi incominciarono a danzare sullo sfondo rossastro.

Esisteva una remota possibilità che Ogre stesse dicendo la verità; quello che ci stava accadendo poteva non essere un chissà quale fenomeno cosmico assurdo, bensì il progetto mostruoso di qualcuno o qualcosa.

In quest’ottica ognuno dei miei compagni di viaggio era sospetto, a partire da Pietro fino al capitano Gracchi. Passai in rassegna mentale tutti i marinai e dietro di loro però campeggiava enorme un volto inespressivo e spietato, la faccia mummificata dell’idolo.

«Ci ha già provato, vero? – domandai – E tu l’hai fermata. Sei stato tu a dare fuoco alla nave iraniana.»

Rimase impassibile. L’ombra del senso di colpa non lo attraversò neanche per un secondo, e sinceramente non mi interessava giudicare le sue azioni, cercavo solo di capire.

Se era stato lui a provocare l’incendio che aveva distrutto la petroliera, aveva in pratica condannato a morte decine di marinai. Perché allora si era prodigato per salvare il sottufficiale? E perché stava mettendo in guardia me dal pericolo?

«Ho tentato di fermarla – rispose – Troppo presto. E ho fallito. Ho bisogno di aiuto.»

Non ebbi il tempo di avere una qualche reazione; la discussione, infatti, fu interrotta dal rumore di passi che procedevano spediti sotto coperta. Un attimo dopo entrarono nella sala macchine Pietro e il Sordo con al seguito altri tre marinai, tutti armati di spranghe. Era abbastanza evidente che volessero dare una lezione a Ogre. Non credo che avessero progettato di prendersela anche con me, ma ci sarei finito di mezzo lo stesso se Ogre non si fosse mosso. Aspettò che il piccolo gruppo fosse completamente entrato, poi si alzò dallo sgabello e gli andò contro, camminando lentamente fino a portarsi davanti a Pietro, che lo sfidava apertamente con il mento alzato; in quel modo li aveva chiusi a un angolo con la sua massa enorme. La porta era libera e ne approfittai per fuggire via e cercare aiuto.

Imboccai di corsa le scale e sbucai sul ponte: diversi marinai vagavano senza una meta, qualcuno parlava a voce bassa con un compagno, per lo più camminavano solitari trascinando i piedi, come sonnambuli nella nebbia.

«C’è una rissa di sotto! – gridai – Dobbiamo fermarli!»

Qualcuno mi guardò come se fossi uno scemo, molti non alzarono neanche lo sguardo da terra. Era evidente che da loro non sarei riuscito a ottenere alcun aiuto, quindi andai diritto dal capitano, sempre fermo a prua. Mentre gli raccontavo l’accaduto, i suoi occhi rimasero incollati sul panorama immobile; si girò verso di me solo quando ebbi finito di parlare: il suo sguardo era indifferente, quasi catatonico.

Mi sentii d’improvviso solo. Solo e disperato. Non mi veniva altro da pensare se non che quella situazione era profondamente ingiusta. Ritornavo in modo ossessivo su questa idea; non me l’era andata a cercare, non ero in grado di fare nulla contro un orrore di portata così immensa. Non ero neanche in grado di trovare un aiuto per Angelo. All’improvviso mi ricordai di Ogre: ero salito sul ponte per lui.

Fu come svegliarmi da un sogno a occhi aperti, ragionavo di nuovo con la mia testa e mi accorsi che la nebbia avvolgeva me e Gracchi con le sue spire simili a tentacoli, attorno alla testa, nelle orecchie, nel naso; comprimeva il petto, rendendo difficile anche solo respirare, e i miei pensieri si confondevano con un rumore di sottofondo, una voce.

Dietro di me i marinai che prima si aggiravano inebetiti sul ponte si erano avvicinati e stavano guardando, però nessuno parlava. Alle loro spalle potevo vedere l’idolo: era rivolto verso di me. Mi trovavo sulla linea esatta in cui guardava la testa. Agitai le braccia nel tentativo di scacciare l’immagine del volto mummificato e di dissolvere la nebbia. Presi il capitano per le spalle e lo scossi con forza, finché non mi guardò e sembrò riconoscermi.

Prima di poterci confrontare sul nostro stato fummo entrambi attirati dalle urla che provenivano dalle scale che conducevano nella stiva. I cinque aggressori da cui ero sfuggito correvano sul ponte, chi zoppicando, chi reggendosi un braccio o la testa con una mano. Dovevano aver preso una bella batosta, questo comunque non giustificava le loro espressioni e quelle grida: erano di uomini terrorizzati.

Per tutto il resto della giornata non vidi più né Ogre, né Pietro e la sua banda. Fui piuttosto occupato a parlare con il capitano circa alcuni piani che avrebbe voluto tentare per risolvere la situazione; tutti abbastanza improbabili, come inviare un’altra lancia, pompare il carburante dei motori per fare segnalazioni fiammeggianti e cose del genere.

Nel frattempo osservai il resto dell’equipaggio. Le attività dei marinai e anche il loro vagare senza meta, si era progressivamente spostato nel corso della giornata, dal cassero di poppa a un’area nei pressi della prora, appena sotto il ponte rialzato che rappresentava la punta estrema della nave. Stimai che il grosso dei movimenti avveniva in un raggio di circa dieci metri dall’asse centrale della petroliera, ovvero circa metà della larghezza del ponte. In uno spazio così grande, offuscato dalla nebbia, non mi fu subito chiaro, poi d’un tratto riuscii a vedere lo schema degli spostamenti, o meglio, a intuirlo: gli uomini si muovevano attorno all’idolo seguendo uno schema geometrico molto preciso e ripetitivo, così complesso da apparire casuale. Mi saltò alla mente il discorso di Ogre: “l’Oscurità viene richiamata da fenomeni casuali, a volte da segni o da gesti, persino da forme celate in un paesaggio”.

Mi sedetti sulle scalette del ponte rialzato e aspettai, sconcertato e affascinato da quello spettacolo rituale. Comunque anche quel giorno ci vide a digiuno e senza alcuna buona previsione in vista; col calare delle tenebre si acquietò ogni rumore, i marinai non avevano più voglia neanche di parlare tra di loro e si interruppe il via-vai. Nonostante il freddo, alcuni decisero di dormire vicino all’idolo e il capitano non glielo impedì, era un dato di fatto che vicino alla testa avvenisse un qualche tipo di rinvigorimento fisico. Io ero tra quelli che decisero di rimanere nelle loro celle, ma il gelo quella notte divenne ancora più intenso, nulla sembrava poterlo dissipare, tanto meno le coperte inzuppate dall’umidità e dalla nebbia. Non riuscii a dormire neanche un minuto. Rimanere nel letto in quelle condizioni si stava rivelando un tormento e alla fine decisi di alzarmi; pensai che stesse avvicinando l’alba.

Inoltre avevo bisogno di mettere qualcosa nello stomaco, fosse anche solo un po’ d’acqua, così andai alle cisterne dell’acqua potabile per riempire una tazza, ma dal rubinetto non uscì nulla; lo stesso accadde anche con i rubinetti sul ponte, lì però la causa era evidente: le tubature erano state spaccate dall’acqua che aveva ghiacciato al loro interno. In tre giorni eravamo passati da 40°C a una temperatura inferiore allo 0.

Con il naso gelato, inoltre, non mi ero accorto subito del tanfo incredibile che stagnava sul ponte. Cercavo di individuarne l’origine, quando sentii dei rumori che provenivano da fuori la nave, come se lo scafo stesse incontrando degli ostacoli nella sua avanzata. Corsi ad affacciarmi verso prua, nella speranza di vedere la Monfalcone muoversi di nuovo. Se fosse stato così avrebbe voluto dire che eravamo salvi. La nave aveva solo avuto dei guasti simultanei ai suoi impianti, poteva succedere, eravamo solo stati sfortunati e forse la lancia inviata a cercare soccorsi semplicemente aveva avuto dei problemi o non era riuscita più a trovarci nella nebbia. E soprattutto ero stato un completo idiota a dare retta anche solo per un attimo a Ogre e alle sue storie assurde.

Mi sporsi dal parapetto per guardare giù, verso l’acqua, anche se senza luce era impossibile vedere qualcosa in quel mare nero, distinguevo a malapena la murata della nave. Da lì sotto, però, veniva la puzza che aveva invaso la nave. Non sentivo, invece, il vento sul viso e neppure un debole rollio: non eravamo noi a muoverci; qualcosa stava sbattendo contro lo scafo all’altezza dell’acqua lungo tutta la linea di galleggiamento.

Il debole rossore dell’alba cominciò a spandersi dall’orizzonte, più debole del giorno prima. Quando la luce arrivò a lambire la nave li vidi: pesci, pesci ovunque, a milioni, morti e putrefatti, circondavano la Monfalcone fin dove la nebbia consentiva di posare lo sguardo. Mi accasciai sul ponte con la schiena al parapetto e le braccia strette attorno alle ginocchia. Forse soltanto gli orrori della guerra sono paragonabili a ciò che vivemmo in quei giorni, strappati dalla nostra umanità un brandello alla volta.

 


 

Alcuni marinai mi ritrovarono, non so quanto tempo dopo, ancora in quello stato; alla mia reazione di rifiuto, si aggiunsero i pianti e le preghiere mormorate dagli altri. Alberico fu preso da una crisi isterica; era uno dei ragazzi più giovani e quello spettacolo di decomposizione era duro da sopportare anche per i veterani. Non era solo il mare di morte, quei pesci erano risaliti a galla direttamente dal fondo delle nostre paure ancestrali: erano mostruosi, deformi, veri abitatori degli abissi più remoti.

Dopo le prime reazioni, l’equipaggio tornò al suo stato di rassegnata attesa. Pietro e il Sordo, che ricoprivano il ruolo di responsabili della pesca, si fecero aiutare a tirare a bordo gli strani pesci e li esaminarono per capire se fosse possibile ricavarne qualcosa di commestibile; andarono avanti per ore e riuscirono a selezionare solo un paio di carcasse ridotte meno peggio delle altre. A detta di buona parte dell’equipaggio, capitano in testa, era impensabile mangiare quella roba gelatinosa, soprattutto perché con forni e fornelli fuori usa non c’era molto modo di cucinarla. Gli animi si scaldarono anche in quell’occasione, sarebbe scattata una rissa, stavolta con esisti negativi, se Gracchi non avesse fatto un passo indietro.

«Dato che non c’è nulla di commestibile a bordo – disse – non imporrò più alcun vincolo per i pasti. Ognuno è responsabile per sé di quello che mangia. Potete consultarvi con il dottor Righi se lo ritenete importante. La discussione è chiusa, ma non voglio vedere questa schifezza sul ponte della Monfalcone, per cui se non volete rigettarla in mare, portatela via e ripulite tutto.»

Sul volto di Pietro tornò il ghigno malvagio che portava due giorni prima e diede ordine al Sordo e agli altri suoi compagni, di portare il pesce in cambusa e dare lo straccio sul ponte.

Non che avesse un motivo valido per sorridere; anche se avessimo davvero potuto mangiare quella schifezza, il problema più grave restava: non avevamo nemmeno un goccio di acqua potabile.

Una soluzione temporanea era stata improvvisata: spaccare i tubi e far sciogliere il ghiaccio raccolto e farlo sciogliere al fuoco del poco materiale combustibile rimediato in giro. L’acqua così ottenuta era così poca che la razione a testa era sufficiente sì e no per bagnarci le labbra. Ancora pochi giorni e sarebbe arrivata la vera sete, quella che spinge i naufraghi a bere l’acqua di mare e a morire di nefrite.

Non riuscivo a togliermi dalla mente l’immagine di uomini pallidi, con il ventre, la faccia e le estremità gonfie, gli occhi rossi, la lingua riarsa e le labbra spaccate per la mancanza d’acqua, i pantaloni sporchi di lurido piscio color sangue.

Non eravamo ancora a quel punto, nonostante tutto eravamo abbastanza in buona salute, eppure quella stessa immagine mi venne descritta anche da molti altri marinai, come se qualcuno avesse mostrato a tutti noi lo stesso dipinto.

Corsi da Ogre; pensavo fosse l’unico che non avrebbe preso per pazzo. Ero ormai convinto che le nostre sensazioni, – quelle immagini improvvise – dovessero essere dei messaggi e lui era convinto che ci fosse una volontà oscura dietro la nostra situazione.

Gli raccontai in maniera concitata come mi ero ritrovato senza accorgermene da una realtà all’altra e di nuovo alla nostra; mi sbracciavo per farmi comprendere, gli vomitavo addosso una sfilza di parole senza pause e credo di aver alzato il tono di voce, visto che mi arrivarono occhiate. Lui continuava ad armeggiare taciturno attorno ai tubi e ai rubinetti delle cisterne senza darmi seguito. Solo quando mi fermai per riprendere fiato, si girò con calma verso di me.

«Hai sete?» mi chiese.

La risposta era ovvia, infatti continuò dopo una breve pausa.

«Se ti dicessi che non berrai mai più un goccio d’acqua e morirai di sete?»

«Ho paura che l’ipotesi non sia tanto assurda – risposi – la sola idea mi fa venire ancora più sete, se ci penso ho una paura folle, non sono mai stato così vicino alla possibilità di morire, potrei impazzire.»

Ogre annuì e tornò a trafficare con le cisterne, mentre riprendeva con una delle sue frasi sibilline.

«È proprio quello che sta accadendo.»

Arrivarono altri marinai per dargli una mano con le cisterne, così lasciai cadere il discorso. Riuscirono a fare ben poco in realtà: sciolsero un po’ di ghiaccio con una piccola saldatrice a gas, di quelle a mano, giusto quanto era necessario per un sorso a testa prima di andare a dormire, poi la bomboletta si esaurì. Nel frattempo chi aveva mangiato il pesce si era sentito male – tutti intossicati – e aveva rimesso anche l’anima, così la poca disponibile fu riservata a loro per consentirgli di reintegrare almeno un po’ di liquidi.

Visto che era inutile ormai chiudersi nelle cuccette per sperare in un po’ di calore, ci disponemmo tutti come meglio potevamo sul ponte ghiacciato, cercando di ammassarci gli uni vicino agli altri, come un branco di animali. Ero stremato e volevo solo dormire qualche ora; lo desideravo a tal punto da scendere a qualsiasi compromesso, compreso rannicchiarmi con tutto il resto dell’equipaggio attorno all’idolo.

Prima di chiudere gli occhi notai l’assenza del capitano e di Ogre.

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