Quando calano le tenebre – parte 4

6 terribili verità – Seconda verità

Passai il resto della giornata sdraiato sulla branda nella mia cabina; avevo un mal di testa tale da provocarmi vertigini e nausea, così venni dispensato dai miei incarichi. L’ultimo lavoro che feci fu di richiudere il coperchio della cassetta con del filo di ferro e spostare il contenitore in uno dei mobili della cambusa.

All’inizio non riuscii a riposare granché; appena chiudevo gli occhi infatti mi veniva alla mente una scena: il marinaio e l’idolo che si guardavano l’un l’altro da vicino e sentivo nella testa un rumore martellante di tamburi rudimentali, forse, bastoni che picchiano su tronchi cavi, un modo antico e dimenticato di comunicare.

Alla fine la stanchezza ebbe la meglio sull’ansia e mi addormentai. Fu il silenzio a svegliarmi.

Le orecchie di un marinaio si abituano subito ai rumori di bordo: lo sciabordio delle onde, il vibrare dei generatori, il brusio sommesso dei motori. Quando quei rumori vengono a mancare il silenzio diventa assordante e innaturale.

Spalancai gli occhi di colpo: ero immerso nell’oscurità; le luci della cabina non funzionavano, feci un po’ di luce con il mio zippo e uscii nel corridoio, dove per lo meno si alleviò il senso di solitudine opprimente: alcuni marinai mi passarono davanti a passo spedito e mi avvertirono che Gracchi ci voleva tutti radunati sul ponte, così mi unii a loro.

La comunicazione del capitano fu breve e concisa: tutti gli strumenti di bordo, radio, radar e scandagli, non erano funzionanti e anche prima di spegnersi, poche ore prima, avevano registrato dati assurdi e perciò inattendibili. Lo stato dei fatti a quel momento era che la nebbia fitta impediva di avere un contatto visivo con le coste, le nubi temporalesche non consentivano neanche di individuare bene la posizione del sole. La Monfalcone aveva proseguito sulla rotta già tracciata fino al calare della notte, poi tutti i sistemi elettrici a bordo avevano smesso di funzionare; il generatore principale, quelli ausiliari e anche quelli di emergenza si erano spenti e non c’era stato modo di riavviarli; risultavano inutili anche le pile e le batterie portatili.

Se fossero andati avanti alla cieca il rischio di incidente in mare sarebbe stato molto alto, ma sotto la nave l’acqua era immobile, priva di corrente. Qualcuno se ne uscì con l’ipotesi che eravamo incappati in un qualche tipo di fenomeno elettromagnetico locale, “una specie di triangolo delle Bermuda”, fu detto per sdrammatizzare, anche se in realtà nessuno aveva idea di cosa potesse essere successo.

Il capitano non fece alcuna menzione del magazzino e del fatto che non avessimo praticamente più niente da mangiare, disse però che dal giorno seguente sarebbe cominciato il razionamento dei viveri e dell’acqua, visto che una situazione meteorologica così anomala poteva protrarsi a lungo. Sempre l’indomani sarebbe stata inviata una lancia con tre uomini a bordo per cercare di raggiungere la costa più vicina.

L’equipaggio accolse le notizie con un certo malumore borbottando qualche lamentela contro chi aveva messo in mare “questo catorcio di nave”, per fortuna senza altre conseguenze.

Dopo che la riunione fu sciolta, mi diressi dal grosso marinaio, che se ne stava in disparte appoggiato al parapetto. Non so da dove mi venne il coraggio di rivolgermi a quella figura enorme con tanta violenza.

«Tu ne sai qualcosa? Vero? Dimmelo!» gli urlai.

Senza prestare troppo caso alla mia aggressività, si rivolse a me in tono calmo e sommesso aprendo le mani enormi in un gesto tranquillizzante, dal quale mi ritrassi comunque intimorito.

«È solamente l’inizio – disse – Riposati se puoi e non dare retta alle voci.»

Detto questo si allontanò assieme agli altri e io rimasi lì fermo per diversi minuti: quel monito aveva acceso un interruttore nella mia mente confusa, o forse lo aveva spento.

 


 

Il giorno seguente, come stabilito, osservammo la lancia e il suo piccolo equipaggio scomparire tra le nebbie che ci avvolgevano. La luce era crepuscolare a causa della cappa di pesanti nubi che oscuravano il cielo; nonostante questo, il clima non era negativo, in fondo c’era solo da aspettare che venissero a prenderci, questione di un paio di giorni al massimo; nel frattempo il nemico peggiore sembrava dovesse essere costituito dalla noia.

Mi diedi alle pulizie e un po’ tutti si tenevano occupati con le solite attività di routine, a cui si erano aggiunti i turni di pesca, per incrementare le poche scorte rimaste, insufficienti anche solo per i successivi due pasti. Mi preoccupavo meno dell’acqua invece, anche senza gli impianti di desalinizzazione funzionanti, i serbatoi che avevamo potevano darci acqua potabile per una settimana se ben razionata.

Passavo lo straccio sul ponte e avevo l’impressione di vedere con la coda dell’occhio la figura del marinaio iraniano; continuavo a definirlo così nella mia testa, anche se ormai era evidente che era iraniano quanto lo ero io; così divenne anche per me “Ogre”, il nome che gli aveva dato Grant parlando di lui con gli altri. Grant era un lupo di mare che si era trasferito in Italia dall’Inghilterra quando era solo un ragazzo; alcune cose però se le era portate dietro, fra queste anche la paura degli Ogre, gli orchi delle leggende e delle favole a cui il grosso marinaio somigliava tanto: cupo, scostante e d’aspetto minaccioso, o forse era solo per il colore olivastro della sua pelle, che in verità condivideva con altri marinai del sud.

In ogni caso a Pietro e al Sordo il soprannome piacque, e così fu ribattezzato Ogre. Non avevo legato molto con quei due; erano dei prepotenti e dei poco di buono. Del primo non ho mai saputo il nome completo, mentre l’altro si chiamava Claudio Sordelli, detto il Sordo, un po’ per assonanza col suo cognome, un po’ perché aveva perso l’orecchio sinistro in un incidente nautico. Con Ogre evitavano di andare in contrasto diretto – probabilmente erano impressionati dalla sua stazza – ma non perdevano occasione di prenderlo in giro ad alta voce e fare battutacce sul suo conto.

Dal canto mio cercavo di stargli alla larga; ero curioso, sì, ma averlo vicino mi metteva a disagio, e io stavo ancora combattendo contro l’ansia che avevo per via della nebbia. Mi veniva la nausea ogni volta che lo sguardo si perdeva in quella coltre bianca: la riempivo con orrori di ogni sorta, o la svuotavo di tutto; arrivai a pensare che al di là della nebbia non ci fosse più nulla, che il mondo fosse finito solo che noi ancora non ce ne eravamo accorti.

Immaginavo da un momento all’altro di trovarmi di fronte la sagoma enorme di Ogre che mi faceva qualche terribile rivelazione con la sua voce cavernosa; tipo che eravamo condannati a fare la fine dell’equipaggio della nave iraniana.

Invece non accadde nulla del genere. Non accadde nulla di nulla; più il giorno andava avanti e più era chiaro che le nostre speranze sarebbero state disattese: sia di veder ritornare la lancia con al seguito dei soccorritori, sia di riuscire a far ripartire i generatori, sia di pescare qualcosa.

Eravamo un oggetto fermo in un mare immobile e solo la debole variazione della luce ci dava un vago senso del trascorrere delle ore. Era un’attesa straziante che ci stava privando di ogni energia.

Durante le ricerche giornaliere erano state trovate delle lampade a gas e una buona quantità di petrolio con cui fabbricare delle torce; era chiaro che sarebbero durate poco, così vennero lasciate accese solo in numero sufficiente a segnalare la nostra posizione a eventuali navigatori. Cenammo praticamente al buio, poi alcuni restarono svegli a chiacchierare, altri, come me, decisero che era meglio andare a dormire, non fosse altro per far passare l’attesa e arrivare riposati all’indomani.

La notte non mi fu di gran sollievo in realtà; sognai per tutto il tempo di trovarmi sul fondo dell’oceano, o almeno credo. Era un luogo sconfinato dove la luce del sole non era mai arrivata, oscuro e gelido; provavo a nuotare – nell’incubo – per risalire in superficie, ogni sforzo però era inutile perché ero schiacciato in ogni direzione dal peso dell’acqua, che mi permetteva di muovermi, ma non di fuggire, e continuavo ad annaspare in cerca d’aria: condannato a soffocare per l’eternità negli abissi.

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