Il Manoscritto – parte 4

manopostParte 4

Alfonso e Rebecca tornano al campo degli zingari, dove Avadoro stava raccontando qualcosa a Uzeda e all’Eremita.

AVADORO: proprio così, i frati dissero a Giulio che il castello dove aveva dormito con la principessa di Monte Salerno era in rovina da secoli.

EREMITA: Le vie del Signore sono infinite.

UZEDA: Affascinante! (si accorge che è arrivata Rebecca) Sorella mia, questa storia dovete proprio ascoltarla. C’è questo signore, Giulio Romati che…

Rebecca è assorta in tutt’altri pensieri e Alfonso è accanto a lei preoccupato.

UZEDA: Non vi interessa.

Rebecca fa delle smorfie infastidite.

UZEDA: Cosa c’è? Siete triste? Siete malata?

Rebecca non risponde e si incupisce.

UZEDA: Avete le vostre cose?

Rebecca guarda male Uzeda. Tutti lo rimproverano con lo sguardo per la gaffe.

UZEDA: Poteva essere…

ALFONSO: (a Rebecca) Forse dovremmo dirglielo?

UZEDA: Cosa?

EREMITA: Confessa!

ALFONSO: (all’Eremita) E mo che c’entra?

EREMITA: Ciò che appesantisce il cuore è peccato agli occhi di Dio. (porge delle erbe) Volete delle erbe amare?

REBECCA: No, non mi va di dirlo.

UZEDA: Cosa non ti va di dire?!

EREMITA: No? Nessuno?

AVADORO: Ha detto che non gli va.

UZEDA: E voi impicciatevi degli affari vostri.

Avadoro si alza minaccioso.

AVADORO: Come vi permettete? Io sono Juan Avadoro, capo delle tribù di zingari, e voi siete ospiti nel mio campo.

EREMITA: Peggio per voi. (mangia le erbe)

AVADORO: Se Rebecca ha detto che non le va di dirlo… (a Rebecca) Ma cosa?

Rebecca riflette un attimo, poi comincia il racconto.

REBECCA: Come mio padre aveva destinato mio fratello a diventare sposo delle due figlie della regina di Saba, voleva che io sposassi i due geni che  presiedono alla costellazione dei Gemelli, i Thamim. All’inizio rifiutai il mio destino, ma poi la terribile ombra di mio padre Mamun mi costrinse a sottomettermi e da allora ho incontrato più volte i miei promessi sposi nel riflesso degli specchi.

Tutti si guardano interdetti.

EREMITA: (all’orecchio di Avadoro) Non ho mica capito cosa le è successo.

AVADORO: Il senso pratico dei cabalisti è pari al vostro gusto in cucina.

L’Eremita continua a mangiucchiare erbe e fa spallucce.

REBECCA: Quando siete giunti voi ho visto mio fratello tremendamente afflitto, non riusciva a conoscere la natura dei due demoni che aveva incontrato e temeva di aver perso con essi i suoi diritti all’immortalità, così per aiutarlo decisi di farne esperienza io stessa.

Rebecca cammina e arriva alla Venta Quemada, si siede e si guarda attorno.

REBECCA: E così questa sarebbe la Venta Quemada.

Si sente della musica e del canto, prende un libro e fa un piccolo rituale.

REBECCA: Mah, sembra tutto normale.

Entrano i due giovani vestiti alla turca, gli portano un piatto con delle pietanze e del vino da bere. L’atteggiamento sensuale, il vino che continuano a versarle, accalorano Rebecca.

REBECCA: (alterata) Però, siete… bravi. Ihih. Belli e bravi.

CASTORE: Siamo solo due marinai.

POLLUCE: Due viaggiatori innamorati della bellezza.

REBECCA: Ihih. Che carini.

CASTORE: Canteremo per voi.

POLLUCE: Tutta la notte.

REBECCA. Siete turchi, vero?

CASTORE: Niente affatto. Siamo Greci, nati a Sparta.

POLLUCE: E Venuti dallo stesso uovo.

REBECCA: Da un uovo?

CASTORE: Ah! Divina Rebecca, come fate a non riconoscerci?

POLLUCE: Io sono Polluce e questo è mio fratello, Castore.

REBECCA: (stupita) Nooo?!

Rebecca sviene sul tavolo. Castore e Polluce si guardano, fanno spallucce, la prendono delicatamente e la rimettono in piedi, poi escono.

REBECCA: E poi mi sono ripresa grazie alle cure del Signor Alfonso.

EREMITA: Un’esperienza davvero toccante.

REBECCA: Dite bene, da oggi voglio rinunciare alle scienze cabalistiche. Questa breve vita io voglio… viverla. La voglio passare con un marito, non con due semidei o, peggio ancora, due astri. Voglio diventare madre, voglio vedere i figli dei miei figli e poi, stanca e appagata dall’esistenza, voglio addormentarmi tra le loro braccia e volare in grembo ad Abramo. Che ne dite, Alfonso?

ALFONSO: Io approvo in pieno, ma…

UZEDA: Ma perché chiedete a lui?

REBECCA: Perché sono cabalista e so che voi vi sareste infuriato.

ALFONSO: (imbarazzato) Io… non credo di entrarci molto in questa discussione. Con permesso.

Alfonso esce di scena.

UZEDA: Mi incavolo sì, mi incavolo, cos’è questa follia?

REBECCA: Non urlate, mi mettete in imbarazzo.

UZEDA: Chi mai sarebbe così stolto da rinunciare all’immortalità?

REBECCA: Voi, fratello.

AVADORO: (all’orecchio dell’Eremita) Tosta la ragazza, eh?

EREMITA: (sta ancora masticando erbe) Bééé!

Avadoro guarda l’Eremita allibito.

EREMITA: Scherzo.

UZEDA: (in imbarazzo) Ma che dite?

REBECCA: Non fareste la stessa cosa anche voi se doveste rinunciare alle figlie di Salomone.

UZEDA: Ecco… io… Mi concederò del tempo per riflettervi.

Sulla scena cala un silenzio imbarazzato. Avadoro cerca di scuotere la situazione.

AVADORO: Questa storia del matrimonio combinato e imposto mi ricorda una cosa che mi è successa…

UZEDA: Oddio, adesso ricomincia con un’altra storia…

REBECCA: Va avanti a lungo?

EREMITA: In saecula saeculorum.

Entrano a margine scena gli impiccati e Alfonso ha come un brivido improvviso.

ALFONSO: Chiedo profondamente scusa, ma devo… fare una cosa, davvero, scusate, ma è più forte di me.

Alfonso esce.

UZEDA: Anch’io avrei da fare delle… cose…

Avadoro lo fulmina con lo sguardo.

UZEDA: Magari le faccio dopo…

Mentre Avadoro parla la scena si svuota ed entrano Juan (il giovane Avadoro), Dalariosa, Maria, Elvira e Lonzeto.

AVADORO: Quando era giovane ho dovuto affrontare un viaggio assieme a mia zia Dalanosa. Ci capitò di fare un incontro interessante lungo il tragitto, dove la strada si Segovia si unisce a quella di Madrid: una ragazza molto carina, circa della mia età, con al seguito uno zagal di circa diciassette anni, grazioso e ordinato benché vestisse come un garzone da stalla e infine una signora di una certa età dall’espressione buona e provata.

La comitiva si siede a mangiare e riposare.

MARIA: Bella giornata vero?

DALANOSA: Già, proprio una bella giornata

Elvira e Lonzeto si fanno sguardi dolci. Juan li vede e li indica alla zia.

JUAN: Zia! Zia! Guarda!

DALANOSA: Basta Juan, non è educato indicare.

MARIA: Si sta proprio bene qui.

DALANOSA: Già, si sta proprio bene.

Elvira e Lonzeto si tengono per mano.

JUAN: Zia! Zia! Guarda!

DALANOSA: Ti ho detto basta Juan.

MARIA: Vien voglia di fermarsi a riposare.

DALANOSA: Già, vien voglia.

Elvira e Lonzeto passano a pratiche affettive più esplicite.

JUAN: Zia! Zia! Guarda!

DALANOSA: Juan, adesso basta!

Elvira e Lonzeto si abbracciano e si palpano.

JUAN: E tu guarda però!

Dalanosa guarda i due e rimane allibita.

DALANOSA: Ah… (a voce alta) Erhm!

Tutti si ricompongono.

DALANOSA: Signora, il cielo mi preservi dal pensare male del prossimo, ma… insomma… quei due…

Maria scoppia piangere.

MARIA: Avete ragione, ma c’è un motivo, lasciate che vi spieghi. Io mi chiamo Maria de Torres. Alla morte di mio marito chiamai a vivere con me a Segovia la mia bella sorella, Elvira. La sua bellezza era tale che aveva mille spasimanti che le facevano le serenate. e attirò l’attenzione del nobile messicano Conte de Rovellas, uomo ricchissimo e gioviale, che la chiese e la ottenne in moglie. Solo un anonimo spasimante non si arrese, che scoprimmo poi essere Don Sancho de Pena Velez. Purtroppo lo scoprì anche il Conte e ripudiò mia sorella poco prima che mettesse al mondo sua figlia, anche lei di nome Elvira. Ed è questa splendida fanciulla che viaggia con me. Don Sancho, divenuto viceré promise di sposare Elvira per i guai che le aveva causato.

DALANOSA: Beh, ma è magnifico.

Maria scopia a piangere.

JUAN: Evidentemente no…

ELVIRA: Il viceré è stato molto gentile a farmi quella proposta, ma io non lo voglio sposare.

DALANOSA: e perché mai?

LONZETO: Io ed Elvira ci amiamo, da sempre.

JUAN: Il garzone?

MARIA: Alonzo, Lonzeto, non è un garzone, è mio figlio, l’ho camuffato così perché ci stiamo recando proprio da Don Sancho e non voglio che sappia nulla.

JUAN: Ah, questa è bella, se lo chiedesse a me lo sposerei io, ahah.

DALANOSA: Juan, non essere maleducato. (a Maria) Venite, cara, ristoriamoci un momento.

Rimangono i ragazzi da soli.

LONZETO: Quello che hai detto mi ha fatto venire un’idea.

JUAN: Sentiamo.

LONZETO: Elvira potrebbe farsi sfuggire qualcosa davanti al viceré e allora saremmo davvero nei guai.

JUAN: Probabile.

LONZETO: Perché non ti fingi lei? Sarà divertente.

JUAN: Va bene, mi hai convinto.

ELVIRA: Vieni, scambiamoci d’abito.

Elvira e Juan si scambiano d’abito e suppellettili. Subito dopo rientrano di corsa Maria e Dalanosa.

MARIA: Presto! Presto! Il viceré è qui e vuole vedere… (si accorge del cambio) Elvira?

DALANOSA: (guarda Juan) Juan?

MARIA: (guarda Elvira) Elvira?

JUAN e ELVIRA: (guardano Lonzeto) Lonzeto!

Lonzeto alza le braccia e si celebra come se avesse vinto un premio.

MARIA: Che sta succedendo?

Entra il viceré Sancho.

SANCHO: Elvira carissima!

Maria spinge avanti Juan.

MARIA: Sì! Eccolo! Eccola!

SANCHO: (dà un buffetto a Juan) Ahah, mia cara Elvira!

Juan risponde al buffetto con un pugno sulla spalla.

JUAN: Ahah, caro viceré.

Sancho incassa il colpo.

SANCHO: Energica la nostra Elvira.

Tutti gli altri sorridono e annuiscono.

SANCHO: Ottimo, perché stanotte ho preso la decisione di affrettare il momento in cui sarete mia. Ho fatto venire qui da Burgos l’arcivescovo per sposarci. Siete contenta?

Juan cade svenuto. Tutti gli si fanno attorno e si riprende. Entra l’Arcivescovo.

ARCIVESCOVO: È con somma gioia, anche se devo dire con un tantino di fretta, che sono qui oggi a celebrare le nozze di… di questi due, Don Sancho de Pena Velez e la giovane Elvira de Torres. Chi ha qualcosa da dire lo dica ora o taccia per sempre.

JUAN: Monsignore, abbiate pietà di me! Voglio farmi suora! Sì, voglio farmi suora!

ELVIRA: No che non vuoi!

JUAN: Sì che voglio!

ELVIRA: Ma io non voglio!

JUAN: E manco io voglio! Tu e le tue idee del cavolo!

ELVIRA: l’idea è stata di Lonzeto!

Lonzeto alza le braccia e si celebra come se avesse vinto un premio.

SANCHO: Io non ho capito…

MARIA: Signore, sapete come vanno queste cose, Elvira è ancora giovane e impetuosa…

ARCIVESCOVO: Ha ricevuto la chiamata dal cielo.

SANCHO: Dal momento che il cielo è geloso e chiama  sé un’anima di cui il mondo non è degno, io ve la consegno. Ma che fare di tutti i beni che ho accumulato per lei negli ultimi tredici anni?

MARIA: Sono molti?

SANCHO: Moltissimi.

ARCIVESCOVO: Possiamo occuparcene noi. Venga mio signore, parliamone meglio sulla via del ritorno.

Mentre Avadoro parla la scena si svuota e si ricompone come prima dell’inizio della narrazione.

AVADORO: Alla fine fu deciso che Elvira passasse veramente qualche mese in convento, giusto il tempo che Lonzeto si recasse a chiederla dispensa papale per poter sposare la cugina.

Gli ascoltatori stanno riflettendo su quanto appena raccontato da Avadoro quando Velasquez entra in scena a passo svelto guardandosi alle spalle.

VELASQUEZ: C’è un uomo che mi segue!

Velasquez si aggira per il campo seguito da Alfonso.

ALFONSO: Aspetta un attimo, voglio solo parlarti.

REBECCA: Alfonso che succede?

ALFONSO: Ho trovato anche lui svenuto sotto la forca, appena ha ripreso i sensi a cominciato a correre per i campi.

VELASQUEZ: Mi lasci stare!

EREMITA: Ma li vai a cercare apposta?

ALFONSO: Ero lì per caso!

Avadoro si alza e parla con autorità.

AVADORO: Adesso basta!

VELASQUEZ: Giusto,finiamola qui, lei chi è?

AVADORO: Sono il capo degli zingari del campo dove ti sei introdotto non invitato.

VELASQUEZ: (imbarazzato) Uh… ehm… piacere, duca Pedro Velasquez.

Mentre si gira per presentarsi ad Avadoro, Velasquez continua a camminare, inciampa e cade rovinosamente a terra.

REBECCA: (a Velasquez) State bene? Vi siete fatto male?

Alfonso prova a rianimarlo schiaffeggiandolo, semicosciente Velasquez restituisce gli schiaffi.

ALFONSO: Svegliatevi.

VELASQUEZ; Svegliatevi!

ALFONSO: Ma io sono sveglio!

VELASQUEZ: Bene, sono riuscito a farvi rinvenire.

ALFONSO: Ma…

VELASQUEZ: No, non ringraziatemi per avervi salvato la vita.

Tutti ridono.

ALFONSO: Se voi non vi foste sforzato tanto di sfuggirmi nessuno si sarebbe fatto male!

VELASQUEZ: Signore, vi esprimete male, vi devono aver inculcato dei cattivi principi.

ALFONSO: Signore, vi assicuro che sono stato cresciuto con i migliori principi d’onore.

VELASQUEZ: Non ne dubito, ma io parlavo dei principi sull’accelerazione dei gravi.

EREMITA: Accelerazione…

VELASQUEZ: Così come essa si manifesta lungo un piano inclinati. Infatti, poiché volevate parlare della vostra caduta e spiegarne la causa…

ALFONSO: Veramente siete caduto voi.

VELASQUEZ: Chi sia sia, avreste dovuto osservare che trovandoci noi su un altura, stavamo correndo su un piano inclinato, quindi avreste dovuto considerare la linea della nostra corsa come ipotenusa di un triangolo rettangolo la cui base fosse parallela all’orizzonte e il suo angolo retto compreso tra la stessa base e una perpendicolare che termina al vertice del rettangolo, ossia più o meno… qui.

Velasquez si mette alle spalle di Avadoro.

EREMITA: Non ho capito.

VELASQUEZ: L’accellerazione su un simile piano inclinato è stata la causa della nostra caduta…

ALFONSO: Ah, adesso siamo caduti tutti e due…

VELASQUEZ: …e non il raddoppiamento della mia velocità determinato dal desiderio di sfuggirvi.

Tutti rimangono interdetti.

REBECCA: Complimenti per le vostre doti matematiche.

VELASQUEZ: Competenze geometriche.

REBECCA: proprio quelle, come le avete acquisite?

VELASQUEZ: Dovete sapere che mio padre, Enrique, un uomo serio e studioso, vide i suoi meriti defraudati dal fratello, Carlos, al contrario mondano e superficiale, soprattutto gli rubò l’amore di Blanca de Velasquez e con lei il titolo di grande di Spagna. Per questo decise di allontanarsi, richiese e ottenne un posto di comandante in Africa, nella colonia di Ceuta. Lì conobbe Ines de Cadanza, figlia del luogotenente regio e di una nobile de Gomelez.

ALFONSO: Una Gomelez?

VELASQUEZ: Sì, e dal loro amore nacqui io. Mio padre cercò in tutti i modi di tenermi lontano dalle scienze matematiche, affinché non cadessi nelle sue delusioni, ma fu un richiamo più forte di lui e di me. Purtroppo mia madre morì nel dare alla luce mia sorella e venne a governare la casa mia zia, dona Antonia de Poneras.

Antonia entra in scena con fare lascivo.

ANTONIA: Pedrooo.

VELASQUEZ: E la sua giovane cameriera, Marica.

Marica entra in scena con fare lascivo.

MARICA: Pedrooo.

VELASQUEZ: Ma ero a tal punto preso dallo studio della geometria che le tenevo in poco conto.

Velasquez prende il taccuino e scrive. Marica gli si avvicina seducente.

MARICA: Che fai, Pedro?

VELASQUEZ: Dei calcoli geometrici.

Marica gli va alle spalle e gli copre gli occhi con le mani.

MARICA: Adesso calcolate, signor geometra.

VELASQUEZ: Mmm… Pi greco quarti è uguale a uno meno un terzo più un quinto meno un settimo più un nono meno un undicesimo…

Continua farfugliando per qualche secondo, poi eccitato si stacca le mani dagli occhi e scrive freneticamente sul taccuino.

VELASQUEZ: 3,1415926538979323…

MARICA: Come sono stupidi i geometri!

Marica esce. Antonia si avvicina a Velasquez con fare provocante.

ANTONIA: Caro nipote, non riesco a dormire, e poi la vostra geometria sembra così bella. Perché non me la insegnate?

VELASQUEZ: Mmm… (scrive sul taccuino) L’area del quadrato costruito sull’ipotenusa di un triangolo rettangolo e pari alla somma…

ANTONIA: Sciocco, non ve l’ha insegnato la geometria come si fanno i bambini?

VELASQUEZ: Bambini? Gestazione… Generazione… Maggiore e Minore! Sì!

ANTONIA: Non c’è speranza…

VELASQUEZ: Ai meno edotti può essere sfuggito, ma sto elaborando un grandioso sistema universale.

Entra Marica con una lettera in mano.

MARICA: Signor Pedro, una lettera.

VELASQUEZ: Per me?

MARICA: Per vostro padre in realtà, ma vuole che la leggiate.

Velasquez legge la lettera.

VELASQUEZ: Signor Don Enrique, vi scrivo per annunciarvi che forse Dio chiamerà presto a sé vostro fratello il duce di Velasquez. Le leggi feudali spagnole non vi consentono di ereditare da un fratello minore, e il titolo di grande di Spagna deve passare a vostro figlio.

Velasquez ripiega la lettera e riflette pensieroso.

VELASQUEZ: Uh… e questo che vuol dire?

ANTONIA: Vuol dire che devi andare a Madrid per ereditare il tuo titolo, Conte de Velasquez.

VELASQUEZ: Madrid? Fuori da Ceuta? Non sono convinto…

ANTONIA: Oh, ma tu “devi” andare.

Antonia da una spinta a Velasquez che si mette in cammino.

VELASQUEZ: E così dovetti partire. Mi recai a Cordova per poi pernottare ad Andujar, dove l’oste non so che assurde storie di spettri. Quando ripartii imboccai forse la strada sbagliata, perché mi ritrovai al calar della notte in una locanda abbandonata e deserta.

Velasquez si siede e si guarda attorno.

VELASQUEZ: E così questa sarebbe la Venta Quemada.

Velasquez si guarda attorno annoiato, sbadiglia si poggia sul tavolo e comincia  scriverci sopra, poco dopo si addormenta. Viene svegliato da rintocchi di campane. Entrano Antonia (con un quaderno in mano) e Marica (con una lanterna).

ANTONIA: Mio caro nipote, ci manda vostro padre a consegnarvi questo documento che dice essere molto importante.

Velasquez prende il quaderno sospettoso e lo esamina.

VELASQUEZ: Dimostrazione della quadratura del cerchio. Mah…

Velasquez sfoglia il quaderno.

VELASQUEZ: Che assurdità. Che inutile banalità!

ANTONIA: Posso sedermi accanto a voi?

(continuando a leggere) Come volete…

MARICA: (poggiando la testa sulle ginocchia di Velasquez) Io prenderò posto qui.

VELASQUEZ: Mmm… Non è poi così banale.

Velasquez continua a sfogliare il quadernetto.

VELASQUEZ: Anzi, è interessante. È interessantissimo. Sono allibito. Mio padre ha fatto la più grande delle scoperte!

ANTONIA: Ebbene, datemi un bacio per la pena che mi sono presa a portarvi questo quaderno.

VELASQUEZ: Giusto!

Velasquez bacia Antonia.

MARICA: E io allora? Non ho attraversato il mare anch’io?

VELASQUEZ: Giusto!

Velasquez bacia Marica. Poi le due ragazze si avviluppano a Velasquez e lo coprono di abbracci e carezze. La scena si rabbuia e dal buio esce Velasquez da solo.

VELASQUEZ: E poi mi sono risvegliato sotto la forca…

REBECCA: Che storia interessante.

VELASQUEZ: Mancherebbe la descrizione del mio sistema, ovvero le applicazioni del calcolo all’ordine generale di quest’universo, ma spero un giorno di darvene un’idea, signora…?

REBECCA: Volete conoscere il mio nome?

VELASQUEZ: Altrimenti sarei obbligato a designarvi come X, Y o Z, i segni algebrici per i valori incogniti.

REBECCA: Laura de Uzeda.

Uzeda la guarda stupito.

VELASQUEZ: L’interesse che nutrite per le scienze esatte vi fa onore. (a Uzeda) Posso conoscere il vostro nome?

UZEDA: Mi chiamo Sadok ben Mamun.

VELASQUEZ: Ah, il famoso cabalista.

EREMITA: E io sono l’eremita della valle.

VELASQUEZ: Ah, il famoso eremita.

AVADORO: Come vi dicevo sono Juan Avadoro.

VELASQUEZ: Ah, il famoso Avadoro!

ALFONSO: Io sono Alfonso van Word, capitano della Guardia Vallone.

VELASQUEZ: Ah! Mai sentito.

ALFONSO: Ma come? Tutti gli altri…

AVADORO: Non prendetevela, Alfonso, siete giovane, ma la fama è nel vostro lignaggio.

ALFONSO: Conoscete la storia della mia famiglia?

AVADORO: Non proprio. (a Velasquez) Sappiate, caro geometra, che molti anni fa il duca spagnolo di Medina Sidonia sfidò il capitano fiammingo Van Berg a uno strano duello, che consisteva nel gettare i dadi, chi avesse ottenuto il punteggio più alto avrebbe accoltellato l’altro. Il duca vinse la sfida e uccise Van Berg. La corona dispose un tribunale di dodici spagnoli e dodici fiamminghi per stabilire se si trattasse di duello o omicidio. Tutti i fiamminghi votarono per l’omicidio tranne Juan Van Worden, che votò a favore degli spagnoli.

UZEDA: Sono molto impressionato, ma parlando d’onore non posso dimenticare l’onta subita di recente da un uomo della mia stessa fede.

EREMITA: State parlando dell’ebreo errante forse?

REBECCA: Fratello, non vorrete fare quello che penso?

UZEDA: Ho già predisposto tutto per richiamarlo tra noi.

Uzeda fa dei gesti mistici e recita delle formula. Dopo pochi istanti entra l’Ebreo Errante.

UZEDA: Che pigro! Che birbante! Tutto questo tempo ci hai impiegato?

EBREO: Il vostro potere ormai è nullo. Spero che non conserverete a lungo quello che avete su di me.

UZEDA: Alla buon’ora, farò come mia sorella. Intanto signor viaggiatore, racconta la storia della tua maledizione. E non mentire come tuo solito.

EBREO: Il mio nome è Assuero, dovete sapere che ai tempi in cui Gesù di Nazareth predicava in Giudea io vivevo a Gerusalemme, nella casa di mio zio Sedekias, e per lui facevo il cambiamonete nel grande Tempio. Ero lì quando il sedicente Messiah cacciò tutti i mercanti in un impeto di rabbia e per poco non mandò in rovina i miei affari. Fui felice quando lo arrestarono e lo condannarono, così seguii tutta la sua passione; come molti altri gli gettai addosso fango e lo insultai. “Vai Messiah, tornatene da tuo padre”. Lui si fermò e in mezzo a tutta la folla rispose a me soltanto. “Io vado – disse – e tu mi aspetterai fino al mio ritorno”. Da allora cominciai a camminare. E non mi sono ancora fermato.

Tutti rimangono un attimo in silenzio.

UZEDA: Ben ti sta! Ora puoi andartene.

EBREO: Non sono qui solo per te, cabalista, ho un richiamo più forte del tuo.

L’Ebreo Errante si avvicina ad Alfonso e gli consegna una lettera.

ALFONSO: (a Uzeda) Beh?

UZEDA: Non guardare me, non c’entro.

Alfonso apre la lettera e la legge velocemente.

ALFONSO: Dovete scusarmi, ma devo…

EREMITA: Fare una cosa. Lo sappiamo.

AVADORO: (all’eremita) Ma cos’è poi che va a fare ogni volta?

ALFONSO: Allora… vado.

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