Entrano le guardie dell’Inquisizione.
GUARDIA: Vi chiamate Alfonso Van Worden?
ALFONSO: Sì, ma… che succede?
GUARDIA: Vi arresto da parte del re e della santissima Inquisizione.
Le guardie legano Alfonso e lo strattonano via.
ALFONSO: Che cosa ho fatto?
Le guardie lo ignorano e lo gettano in un angolo poco illuminato, lasciandolo da solo.
ALFONSO: Ma che ho fatto…?
A poco a poco si addormenta. Nel frattempo il tavolo viene allestito per l’interrogatorio.
Le guardie vanno a prendere Alfonso.
GUARDIA: Sveglia, è giunta l’ora del tuo interrogatorio.
Alfonso viene condotto di fronte a un frate domenicano seduto al tavolo e costretto a sua volta a sedere. Sul tavolo ci sono vari e fantasiosi strumenti di tortura.
FRATE: Caro, dolce ragazzo, cosa hai fatto?
ALFONSO: Me lo stavo giusto chiedendo…
FRATE: Quali peccato hai commesso?
ALFONSO: Veramente…
FRATE: Non rispondi?
ALFONSO: Stavo cercando di…
FRATE: Ragazzo mio, hai torto.
ALFONSO: Ma se non mi fate…
FRATE: Ti metterò sulla strada: conosci due ragazze di Tunisi?
ZIBEDDÉ (VFC): …non rivelare mai i nostri nomi e la nostra esistenza…
ALFONSO: Conosco tante ragazze…
FRATE: O piuttosto due infami streghe, vampiri esecrabili e demoni incarnati?
ALFONSO: Mi sembra proprio di no…
FRATE: Queste due infante della corte di Lucifero!
Le guardie fanno entrare Emina e Zibeddé.
ALFONSO: Uh…
FRATE: Non le conosci?!
ALFONSO: Eh…
FRATE: Allora dovrò torturarti!
Il frate sale sul tavolo prendendo degli arnesi e si prepara a usarli su Alfonso.
Si sente il rumore di un attacco, corni, armi da fuoco ecc.
FRATE: Che succede?
EMINA: Oh! Maometto! Siamo salvi.
ZIBEDDÉ: Zoto è venuto in nostro aiuto.
Zoto, Cicio e Momo entrano spavaldi in scena, con rapidi colpi di spada rendono inermi le guardie e Zoto marchia con la Z il fondoschiena del frate (ancora caproni sul tavolo) che scappa, Emina e Zibeddé lo abbracciano con ardore sensuale.
ALFONSO: Ehm, scusate, ci sarei anch’io.
ZOTO: E lui chi è?
EMINA: Il cugino Alfonso.
Con un colpo di spada, Zoto taglia le corde che tengono legato Alfonso alla sedia e gli porge la mano.
ZOTO: Benvenuto cugino!
ALFONSO: Salve… ma lei è davvero Zoto. Cioè, Zoto il bandito, il fratello dei fratelli impiccatti.
ZOTO: Ahah. Più io di me stesso. E loro sono Los Hermanos.
Cicio e Momo danno la mano ad Alfonso, che stringe le mani un po’ interdetto e risponde con un cenno della testa.
CICIO: Piacere Cicio.
MOMO: Piacere Momo.
ALFONSO: Vi… vedo in forma.
ZOTO: Venite, spostiamoci in un posto più sicuro, il nostro rifugio nelle grotte sotto le montagne, tutta roba costruita dai Gomelez, un vero labirinto.
Il gruppo “viaggia” fino al rifugio di Zoto.
ALFONSO: Mi incuriosisce come un uomo possa lasciarsi alle spalle l’onore e diventare un bandito.
ZOTO: Non ingannarti cugino, la storia della mia famiglia “è” una storia d’onore.
CICIO: Nostro padre era un armaiolo di Benevento.
MOMO: Era bravo, ma non così bravo da diventare ricco.
CICIO: Quando nostra zia sposò un ricco mercante d’olio per lui cominciarono i guai…
Entrano la zia, la madre, il padre e Monaldi.
ZIA: Guarda che m’ha regalato il marito mio per il matrimonio. Due orecchini d’ora e una collana da mettere al collo, d’oro pure quella. Ti piacciono?
MADRE: Svergognata! Amoooreee!
PADRE: Che c’è, amore mio?
MADRE: C’è che voglio una collana d’oro più lunga di quella di mia sorella.
Il padre tira fuori da un sacchetto delle monete e le dà alla moglie.
PADRE: E vabbè. Tieni…
La madre tira fuori da una borsa una collana pacchiani e la indossa, poi con fierezza si rivolge alla sorella.
MADRE: Bella mia, guarda che tengo.
ZIA: Uuhh, una meraviglia, ma guarda che tengo io, sempre regalo del marito mio. Una spilla col rubino. Ti piace?
MADRE: Svergognata! Amoooreee!
PADRE: Che c’è, amore mio?
MADRE: C’è che voglio una spilla con un rubino più grosso di quello di mia sorella.
Il padre tira fuori da un sacchetto delle monete e le dà alla moglie.
PADRE: E vabbè. Tieni…
La madre tira fuori da una borsa una spilla pacchiana e la indossa, poi con fierezza si rivolge alla sorella.
MADRE: Bella mia, guarda che tengo.
ZIA: Uuhh, una meraviglia, ma guarda che tengo io.
Entra in scena un ragazzo sorridente e si mette al seguito della zia.
ZIA: Un lacché che mi accompagnerà alla santa messa, costa assai. Ti piace?
MADRE: Svergognata! Amoooreee!
Il padre sgrulla il sacchetto delle monete, ma è vuoto.
PADRE: Facciamo una pausa, vuoi?
MADRE: Ma amoreeee!
Il padre si allontana arrabbiato e va verso Monaldi.
PADRE: Ma vafancuuu…
MONALDI: …lo volete un suggerimento da un amico?
PADRE: Volentieri, ma a voi manco vi conosco.
MONALDI: Grillo Monaldi, piacere.
PADRE: Zoto l’armaiolo, piacere.
MONALDI: Dovete usare la verga.
PADRE: Come?
MONALDI: Il consiglio da amico, dico, con vostra moglie dovete usare la verga.
Monaldi porge una verga al padre.
PADRE: No, non lo voglio fare, non mi piace la violenza.
MONALDI: Ma se siete un armaiolo.
PADRE: Io faccio le armi, poi come uno le usa non è affare mio.
MONALDI: Ma vostra moglie è affar vostro. Se non usate la verga ora per rimetterla in riga, poi vi toccherà fare ben altre cose che non vorreste fare, fidatevi.
Un po’ perplesso il padre prende la verga e torna dalla moglie.
MOGLIE: Amore, mi hai portato quello che ti ho chiesto? No?
La moglie delusa e offesa si gira e finge di piangere, il padre alza la verga per picchiarla, ma lei si gira di colpo, lui ride imbarazzato.
MOGLIE: Ma che è ‘sta cosa, mi stai prendendo in giro?
La moglie strappa di mano la verga al padre e lo picchia. Bastonato, lui torna da Monaldi.
MONALDI: Allora?
PADRE: Picchiarla non mi è sembrato il caso, m’avrebbe fatto troppo soffrire. Già così…
MONALDI: (scuote la testa) Venite, ho un lavoro da proporvi.
Padre, madre, zia e Monaldi escono di scena.
MOMO: E così papà si unì a una banda di assassini.
CICIO: Ed era pure bravo assai.
MOMO: Fece un sacco di soldi.
CICIO: Ma poi, col tempo, un po’ forse si pentì delle tante persone che aveva ammazzato.
MOMO: Si ritirò in un convento a Messina e con il bottino messo da parte si comprò il perdono divino.
CICIO: Noi tre eravamo piccoli e quando mamma morì lo raggiungemmo.
MOMO: E i frati mandarono ognuno di noi a imparare a fare qualcosa.
ZOTO: Io fui mandato in una fattoria alle pendici dell’Etna. Mi ci vedete a fare lo zappaterra? Appena passarono lì vicino mi unii ai banditi del famoso Testalunga, che era famoso come bandito, ma la gente gli voleva bene. Ancora oggi in Italia la gente si affeziona a chi li deruba. Io lì ci stavo bene, però… femmine… sapete come succede no? Uno s’è messo a fare il cretino con la mia ragazza, che faceva la cretina con lui e tutti e due facevano cretino me. Così li ho accoltellato tutti e me ne sono andato in spagna con i miei fratelli. E qui ci siamo messi al servizio dello Sceicco dei Gomelez. Bene, eccoci arrivati, vi consiglio di riposare.
Rimangono soli Alfonso e le cugine.
EMINA: Alfonso caro, quanto tempo.
ALFONSO: Eh già…
ZIBEDDÉ: Non sembrate molto contento di rivederci.
ALFONSO: Vi dirò, non mi lamento della notte passata alla Venta Quemada, è stato il risveglio a dispiacermi alquanto.
EMINA: Di cosa vi lamentate? Non avete avuto forse modo di dar prova di un coraggio sovrumano?
ALFONSO: Beh, in effetti…
ZIBEDDÉ: E anche poc’anzi, con quale indifferenza avete guardato i preparativi del vostro supplizio!
ALFONSO: Una quisquilia.
EMINA: Vi siamo “molto” riconoscenti.
ZIBEDDÉ: Ammiriamo così tanto le vostre virtù.
EMINA: Quale religioso rispetto per la parola data.
ZIBEDDÉ: Sì, Alfonso, voi superate tutti gli eroi della nostra razza.
EMINA: E noi siamo diventate un bene vostro.
ZIBEDDÉ: Ma dovete promettere di non credere al male che vi diranno su si noi.
Alfonso annuisce obnubilato dalle grazie delle ragazze.
EMINA: E dovete togliervi quella reliquia dal collo.
ALFONSO: Il ciondolo di mamma?
ZIBEDDÉ: Caro Alfonso, voi non avete messo limiti alla vostra devozione verso di noi e noi non ne vogliamo mettere alla nostra riconoscenza.
Mentre Zibeddé parla e provoca Alfonso mettendosi in mostra, Emina gli va alle spalle con un paio di forbici, taglia il nastro della reliquia e la prende in mano.
ALFOSO: Ma che fate?
Emina getta lontano la reliquia.
EMINA: Non penserai che vogliamo farti del male?
ALFONSO: No, io…
Emina e Zibeddé stringono Alfonso in abbracci sensuali e si fa buio.
Pacheco entra in scena, lancia un urlo e comincia a raccontare.
PACHECO: Stanotte stavo inseguendo una capretta per mungerla, quando questa si è tramutata in un caprone nero che si è alzato sulle zampe posteriori e mi ha spinto a cornate giù da un precipizio. Caddi non so come in fondo a una caverna dove vidi il giovane cavaliere, stava su un letto e aveva accanto a sé due bellissime ragazze vestite alla moresca, ma ai miei occhi perdettero subito la loro bellezza…
Si vede Alfonso amoreggiare con i due impiccati.
PACHECO: E riconobbi i due impiccati. Volevo gridare, ma non potevo.
Suona una campana.
PACHECO: Alla mezzanotte vidi entrare un demonio che aveva corna di fuoco e una coda infiammata; teneva un libro in una mano e un forcone nell’altra.
Gli impiccati si prostrano e parlano con voce cavernosa.
IMPICCATI: Oh, potente sceicco dei Gomelez.
SCEICCO: Sciagurato nazareno, hai disonorato il sangue dei Gomelez. Devi farti maomettano o morire.
Pacheco urla e fa dei gesti da dietro lo sceicco. Gli impiccati lo prendono e lo portano fuori.
SCEICCO: (con una coppa o una bottiglietta in mano) Sciagurato nazareno, tracanna in un sorso o morirai di morte vergognosa e il tuo corpo appeso tra quello dei fratelli di Zoto sarà preda degli avvoltoi.
Alfonso beve e sviene. Nel buio dell’incoscienza viene portato sotto la forca.
Si sveglia spaventato, urlando, si guarda attorno, mentre riprende fiato e si accorge che vicino a lui c’è Uzeda addormentato. Prova a svegliarlo delicatamente, poi gli tira un calcio e fa finta di niente. Uzeda si sveglia di soprassalto, si guarda attorno come se vedesse cose celate agli occhi umani, guarda Alfonso e annuisce, come se si aspettasse di trovarlo lì.
UZEDA: Mi avete tirato un calcio?
ALFONSO: Io? No. Assolutamente no.
UZEDA: (si alza) Bisogna propria ammettere che nello studio della cabala si è soggetti a incresciosi equivoci.
ALFONSO: Un calcio, io? Ma che scherziamo? Figurati.
UZEDA: I geni cattivi sanno assumere tante forme che non si sa più con chi si ha a che fare.
Alfonso guarda Uzeda sospettoso che ricambia lo sguardo.
ALFONSO: Non stiamo più parlando del calcio, vero?
UZEDA: E voi non siete dei nostri, vero?
ALFONSO: Dipende… da chi siete “voi”.
Uzeda distoglie lo sguardo e torna a essere sereno.
UZEDA: No, non siete dei nostri. Vi chiamate Alfonso, vostra madre era una Gomelez, siete capitano delle Guardie Vallone, valoroso, ma un tantino ingenuo, se mi permettete.
ALFONSO: (stupito e affascinato) Come fate a sapere tutto ciò?
UZEDA: Sono cabalista.
Alfonso annuisce affascinato.
ALFONSO: E che vuol dire?
UZEDA: Ve lo spiegherò, non temete, così è scritto nelle stelle. Ora andiamocene da questo luogo infausto e andiamo a mangiare.
ALFONSO: Volentieri, ma sono un po’ a corto di cibo.
UZEDA: Non vi preoccupate ho lasciato delle provviste alla Venta Quemada.
ALFONSO: Uh, preferirei evitare.
UZEDA: Eh, lo so, in quella locanda stanotte mi hanno fatto uno scherzo molto crudele, ma è lì che dobbiamo andare.
Alfonso e Uzeda arrivano al tavolo, si siedono e si guardano attorno.
ALFONSO e UZEDA: E così questa sarebbe la Venta Quemada.
Uzeda prende un sacco posato sotto al tavolo e tira fuori da mangiare.
Mentre si ingozzano, Uzeda indica qualcosa per terra, inghiotte, Alfonso si sporge a guardare, poi strabuzza gli occhi e va verso il punto indicato.
UZEDA: Guardate, c’è qualcosa che brilla.
Alfonso raccoglie il ciondolo che gli aveva tolto Emina.
UZEDA: Ahah. Dunque è roba vostra, Signor Cavaliere. Se avete dormito qui, non mi stupisce che vi siate svegliato sottola forca.
ALFONSO: Il fatto è che pensavo di “non” aver dormito alla forca…
UZEDA: Ahah. Rimettiamoci in marcia, stasera arriveremo all’eremo.
Alfonso rimane colpito dall’affermazione, ma non dice nulla. Fanno un giro di “viaggio” e vengono raggiunti dall’Eremita.
EREMITA: Ah, giovane amico, ti stavo cercando, torna al mio eremo.
ALFONSO: Ci stavamo recando proprio lì.
UZEDA: Che coincidenza.
Alfonso lancia un occhiata sospettosa a Uzeda e all’Eremita.
ALFONSO: Già…
EREMITA: Presto! Presto!
I tre arrivano all’Eremo.
ALFONSO: Eccoci. Qual è il problema?
EREMITA: Pacheco è in fin di vita.
Si sente l’urlo straziante di Pacheco.
EREMITA: Ha avuto una visione demoniaca e vuole parlarvene. È di là, andate.
Alfonso esce di scena nel punto indicato dall’Eremita. Finché p assente si sentono le urla di Pacheco a cadenza irregolare. L’Eremita e Uzeda si guardano tra loro e annuiscono con pazienza.
Alfonso rientra in scena con aria sconvolta.
ALFONSO: Oh mio Dio! È orribile!
EREMITA: Figlio mio, lo hai sentito. È mai possibile che ti sia congiunto carnalmente con due demoni? Confessa! Riconosci la tua colpa!
ALFONSO: Eehh! Per favore, ho giù subito un interrogatorio dall’inquisizione e mi è bastato! È chiaro che Pacheco ha visti cose diverse da me. Uno dei due ha avuto le allucinazioni, o forse tutti e due.
EREMITA: Non credi? Sei già così incallito?
ALFONSO: Non ho calli ai piedi, figuriamoci all’anima. Non avere paura dell’ignoto, sia esso in forma di spettri, demoni o succubi, è per noi Van Worden un punto d’onore.
EREMITA: Vedo con dispiacere che le tue virtù si basano su un punto d’onore decisamente esagerato, e poi devi sapere che le virtù hanno altri principi più certi che non l’onore.
ALFONSO: Lasciate che vi racconti una storia come il teologo della nostra casa, Don Inigo, la raccontò quand’era piccolo su ordine di mio padre. C’era una volta, in una città d’Italia chiamata Ravenna, un giovane chiamato…
In scena si aggira il bel Trivulzio, pieno si sé. Delle ragazze gli spasimano dietro.
RAGAZZA: Trivulzio!
TRIVULZIO: (tronfio e sorridente) Sono io.
RAGAZZA: Trivulzio, come sei bello!
TRIVULZIO: Lo so.
RAGAZZA: Trivulzio come sei ricco!
TRIVULZIO: Ahah. Lo so.
RAGAZZA: Hai un’alta opinione di te.
TRIVULZIO: Ce l’ho, eccome. Ma non m’importunate perché non è voi che amo.
Entra in scena la bella Nina.
TRIVULZIO: Nina, giovane e bella Nina, io vi amo, e voi sicuramente amate me.
NINA: Signor Trivulzio mi fate molto onore.
TRIVULZIO: Ve lo faccio eccome.
NINA: Ma io non vi amo.
TRIVULZIO: Lo s… (Stupito e offeso) Come non mi amate?
NINA: Io amo Tebaldo.
Entra in scena Tebaldo.
TRIVULZIO: Ma… è vostro cugino.
NINA: (mette il braccio sotto quello di Tebaldo) Lo so, e non amerò altro che lui.
TEBALDO: Che non c’è cosa più divina…
Nina e Tebaldo se ne vanno lasciando Trivulzio solo e depresso. Entra in scena un amico di Trivulzio.
AMICO: Trivulzio!
TRIVULZIO: Sono io…
AMICO: Hai un aspetto terribile.
TRIVULZIO: Lo so…
AMICO: Sembra che ti abbiano accoltellato.
Trivulzio si riprende dalla depressione e guarda l’amico in modo folle.
TRIVULZIO: Ripeti!
AMICO: Sembra… che ti abbiano accoltellato. È solo un modo di dire.
Trivulzio dà degli schiaffetti sulla guancia dell’amico e sorride.
TRIVULZIO: Ahah. Lo so.
Entrano in chiesa il sacerdote seguito da altre persone tra cui Nina e Tebaldo.
SACERDOTE: Fratelli, sono qui per leggere le pubblicazioni di nozze di Tebaldo e Nina de Gieraci; c’è qualcuno che si oppone al loro matrimonio?
Trivulzio va alle spalle dei due e li accoltella più volte.
TRIVULZIO: Mi oppongo io!
Trivulzio, si rende conto di quello che ha fatto e scappa.
ALFONSO: I rimorsi di Trivulzio vendicarono le sue vittime, ed egli trascinò di città in città un’esistenza deplorevole. Quando dopo qualche anno i suoi genitori sistemarono le sue pendenze e fece ritorno a Ravenna, non era più lo stesso.
TRIVULZIO: (a un passante) Scusate, sapete dove si trova la tomba di Nina de Gieraci?
Il passante indica un telo sotto il quale ci sono i corpi di Nina e Tebaldo.
TRIVULZIO: (piange) Oh bella Nina. Oh valoroso Tebaldo. Cosa vi ho fatto?
Piange e si addormenta sulle tombe. Si sentono dei rintocchi di campane.
TRIVULZIO: Le campane suonano le ore, è giunta quella della mia morte?
Uno spettro vestito di nero (con la faccia da teschio) entra in scena e si mette davanti a Trivulzio, tra Nina e Tebaldo.
SPETTRO: (imperioso) Trivulzio…
TRIVULZIO: (abbattuto) Sono io…
SPETTRO: Trivulzio, sono qui…
TRIVULZIO: Anch’io sono qui…
SPETTRO: Sono qui per…
TRIVULZIO: Per me, lo so, sei qui per me
SPETTRO: Trivulzio! Sono qui per leggere le pubblicazioni di nozze di Tebaldo e Nina dei Gieraci!
TRIVULZIO: Ah…
I cadaveri di Nina e Tebaldo si alzano.
SPETTRO: Dannato Trivulzio, ti opponi?
Trivulzio scuote la testa.
ALFONSO: A questo punto mio padre interruppe il teologo e mi chiese se al posto di Trivulzio io avrei avuto paura. Io gli dissi che avrei avuto “molta” paura, allora lui mi ha tirato un manrovescio che ancora mi fa male se ci penso e mi ha detto che la mia codardia era un disonore. Non sono più un bambino, signori, e per me l’onore è tutto.
EREMITA: Capisco che essendo stato allevato in questo modo la paura dev’essere per te un sentimento del tutto estraneo, ma siccome hai dormito alla Venta Quemada, potresti essere esposto alle ossessioni dei due impiccati e finire come l’indemoniato.
ALFONSO: (dubbioso) Qui un gentiluomo che ha dormito anche lui alla Venta Quemada, forse potrà darci nuovi lumi sulla natura di questi strani eventi.
UZEDA: La gente che come me si occupa di scienze occulte non può dire tutto. Cercherò, nei limiti del possibile, di appagare la vostra curiosità. Ma prima ceniamo.
EREMITA: Ah sì, certo.
Si siedono e l’Eremita tira fuori delle erbe.
EREMITA: (ad Alfonso) Gradisci un po’ di erbe amare?
ALFONSO: No, grazie… Non ho appetito.
EREMITA: Su, mangia delle erbe amare.
ALFONSO: No, davvero non mi vanno.
EREMITA: È successo qualcosa?
ALFONSO: Mi sono svegliato sotto la forca de Los Hermanos…
EREMITA: Di nuovo?
Alfonso annuisce con tristezza.
ALFONSO: Di nuovo.
EREMITA: (indica Uzeda) E lui?
ALFONSO: Lui… l’ho trovato sotto la forca assieme a me…
UZEDA: (interrompe Alfonso e si mette in primo piano) In Spagna sono chiamato Don Pedro de Uzeda e possiedo un castello a una lega da qui, ma il mio vero nome è Rabi Sadok Ben Mamun.
EREMITA: Benvenuto in questo eremo.
UZEDA: Eravamo.
EREMITA: Chi?
UZEDA: Voi.
EREMITA: Allora al massimo “eravate”.
UZEDA: Si dice “eravamo”, non “eremo”.
Tutti rimangono interdetti.
EREMITA: Prendete un po’ di erbe amare, a stomaco pieno si ragiona meglio… “Eremo”, la casa dell’eremita, che poi sarei io.
UZEDA: (intellettualmente sconsolato) Voi nazareni non capite il potere della parola, colpisce l’aria e la mente, agisce sui sensi e sull’anima. Anche se siete profani saprete che Adonai creò il mondo con la parola e si fece parola lui stesso.
Ancora tutti interdetti.
EREMITA: “Voi” nazareni?
UZEDA: Certo, “voi”, io sono ebreo.
Alfonso e l’Eremita rimangono sconvolti dalla rivelazione.
ALFONSO: Almeno non deve dirlo a sua mamma…
UZEDA: E cabalista!
EREMITA: Pure? Fuori da casa mia…!
ALFONSO: Questo me lo aveva detto, però. Credo…
EREMITA: Proprio cabalista cabalista…
UZEDA: Mio padre, Mamun, ha approfondito la scienza della cabala a un grado quale nessun rabbino aveva mai raggiunto prima di lui. Educò me e mia sorella secondo gli stessi principi. Non avevo compiuto ancora dodici anni che già sapevamo l’ebraico, il caldeo, l’assiro, il samaritano, il copto, l’abissino e molte altre lingue, vive, morte e morenti.
ALFONSO: E vi siete svegliato sotto la forca…
UZEDA: (fa un gesto di stizza e riprende) Quando avevo sedici anni, mio padre cominciò a iniziarci ai misteri della cabala Sefiroth. Studiammo il Sefer ha-Zohar, il libro luminoso, così chiamato perché non ci si capisce niente, poi lo Sifra de-Zeniutha, il libro occulto, di cui si capisce ancora di meno, e poi…
ALFONSO: …e poi vi ho ritrovato a dormire sotto la forca.
UZEDA: (stizzito) Sì, beh, non è che voi foste molto distante…
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