Questo è il racconto che mi fece mia nonna quando ero piccolo, quella volta che mi trovò seduto sulla sua sedia a dondolo a guardare la luna piena fuori dalla finestra.
Era finita da poco la Guerra, io non lo so chi aveva vinto e chi aveva perso, ero piccola e sapevo solo che avevo fame e non c’era da mangiare, non c’era scuola, non c’erano libri, non c’erano giochi, la gente aveva ancora paura a mettere il naso fuori di casa, per cui anche gli amici con cui giocare erano pochi, così me ne andavo a zonzo per la città mezza vuota cercando qualcosa da fare.
Cammina cammina mi accorsi che si stava facendo buio. Avevo camminato per chissà quanto tempo e chissà dove. Ero finita in un quartiere dove la guerra aveva fatto più danni che altrove, le strade erano tutte rovinate, molte case erano crollate e bruciate. Non era un bel posto dove trovarsi dopo il tramonto, così cercai di ritrovare la via di casa, ma finii per perdermi ancora di più nell’intrico di vicoli e di edifici diroccati. Nonostante la luna irradiasse tutto con il suo chiarore immaginavo che nel buio si nascondessero chissà quali mostri. Saltai di paura quando vidi un’ombra muoversi minacciosa.
– Sarà un gatto – pensai. Ma non avevo visto nessun gatto, o cane, o topo. E di fatti l’ombra sbucò da dietro l’angolo di un palazzo e si allungò verso di me. Era come un gigante, era più nera del cielo senza stelle e tendeva in avanti le sue manacce artigliate. La faccia era solo una macchia nera, ma immaginai che dovesse avere una bocca larga e piena di denti aguzzi pronta a mangiarmi. Scappai. L’ombra non faceva nessun rumore quando si muoveva, ma emetteva una specie di verso, come il grido di paura di molte persone, ed era sempre lì dietro che mi seguiva.
Non conoscevo quella zona e scappa di qua, scappa di là, inciampai in un buco nel terreno. Cadendo a terra mi sbucciai tutti i palmi delle mani; non solo, mi accorsi che davanti a me c’era un muro. Non c’erano altre vie nei dintorni e non potevo tornare indietro. Stavo per mettermi a piangere quando un raggio di luna più chiaro degli altri illuminò una breccia nel muro, era una crepa molto stretta, ma io ero magrolina – la fame era ancora tanta –, mentre il mostro era di certo enorme e non ci sarebbe passato.
Quando mi avvicinai alla crepa mi sembrò di entrare dentro una cascata di luce pallida e tiepida. Sentii un formicolio alle mani: i graffi erano guariti, come se non fossi mai caduta. Stavo bene così, ma per paura che l’ombra mi raggiungesse mi infilai a fatica nella fessura.
Mi ritrovai dall’altra parte, in un cortile, di quelli che a volte si allargano dietro i condomini. Era circondato da un muro a ridosso del quale c’era una piccola palazzina in gran parte crollata. Tesi l’orecchio vicino alla breccia. Nessun rumore. Pensai d’essermela cavata e cominciai a curiosare un po’ intorno. Il cortile era stranamente ben curato: l’erba non era né troppo lunga, né secca, i fiori erano ben disposti in piccole aiuole, gli alberelli sembravano potati di recente, non c’erano erbacce, i viottoli di brecciolino nel prato erano sistemati a modo.
Osservavo tutto questo con una certa meraviglia, quando a un certo punto mi ritrovai davanti, non molto distante, una… personcina. Sembrava un bambino piccolo piccolo, poco più che un neonato, con indosso un vestitino lungo fino ai piedi, ingrigito dal tempo. La testa era senza capelli e una lunga sciarpa copriva il volto fino al nasino a patata, sopra il quale c’erano due occhi grandi, lucidi e quasi tutti neri. Era scalzo, ma i sassolini del sentiero non sembravano dargli fastidio mentre andava avanti e indietro con un innaffiatoio troppo grande per le sue manine paffutelle a dare acqua alle piante.
Non so perché, però guardandolo mi sentii felice, ero così contenta da non riuscire a trattenere le risate. Sentendomi ridere il bambino girò la testa tonda per guardarmi e io mi ricordai che mi trovavo dispersa, di notte, da sola, in un posto che non conoscevo. Gridai per lo spavento. L’esserino si spaventò a sua volta e lasciò cadere l’innaffiatoio. Io mi girai e scappai, o almeno, volevo scappare, ma me lo ritrovai a sorpresa davanti che cercava di fermarmi gesticolando con le braccia. Gridai ancora; cominciavo ad avere paura per tutte le stranezze che mi stavano capitando. Compreso il fatto che il bambino sparì nel nulla, davanti ai miei occhi, per ricomparire proprio aggrappato a me. Mi abbracciava il collo e poggiava la testa sulla mia spalla. Provai una strana sensazione: la paura scomparve, le ansie si calmarono e non avevo più nessuna ragione per temere il Gleeng – non so quale fosse il suo nome, lo chiamo così perché quando provava a parlarmi io sentivo nella testa una specie di campanellino “gleeng!” e capivo cosa voleva dire anche se non diceva niente. Mi sentivo al sicuro e protetta, come tra le braccia della mia mamma.
Quando si staccò da me, io e il Gleeng eravamo praticamente amici, ci scambiammo dei sorrisi, mi prese la mano e mi fece vedere il suo giardino e come si prendeva cura di quel pezzettino di mondo di cui nessuno si ricordava più.
«Tu sei una specie di folletto dei luoghi dimenticati» dissi.
Lui alzò le spalle e non rispose nulla. Mi condusse invece in una stanza della palazzina – credo che fosse la sua casetta, perché era arredata con pezzi di mobili e altre cose molto vecchie – che non era crollata. Le pareti erano tutte disegnate con i gessetti – i disegni che potrebbe fare un bambino piccolo con del talento – e raccontavano anche del mostro che mi aveva inseguito. “Bruttoricordo” – così lo chiamava il Gleeng – era un orco che un giorno aveva rubato la corona della Principessa Speranza e da allora impediva a chiunque di avvicinarsi al quartiere abbandonato, spaventando tutti con la sua ombra, che era per l’appunto molto spaventosa.
Mi accorsi che il Gleeng continuava a fissare le mie mani. In effetti – e lo vedevo solo in quel momento – brillavano al buio, come se vi fosse rimasto attaccato un po’ di polvere di luna. Il folletto indicava freneticamente la luce e poi il disegno di Bruttoricordo.
«Gleeng! Gleeng! Gleeng! » diceva.
«Vuoi che affronti Bruttoricordo a mani nude? Ma non posso. Io ho paura!» gli dissi io.
Ne stavamo ancora discutendo quando sentimmo il ruggito dell’orco proprio alle nostre spalle. L’ombra più terrificante che avessi mai visto si allungò nella stanza per ghermirci con i suoi artigli. Mi guardai rapidamente attorno e vidi che potevamo scappare dalla finestra, così corsi in quella direzione. Mi voltai tendendo la mano verso il Gleeng – pensavo che con le gambine corte che si ritrovava potesse avere qualche difficoltà a scappare – purtroppo Bruttoricordo era arrivato prima di me e lo stringeva nella sua enorme mano d’ombra.
«Gleeng! Gleeng! Gleeng! »
Il folletto mi stava dicendo di andarmene, di scappare finché ancora potevo, di tornare a casa, dalla mia famiglia. Lo volevo tanto – andarmene dico – era piccola e spaventata, che altro potevo fare?
Guardai le mie mani. Ancora brillavano e lasciavano una scia di granelli fatati. Se c’era la luce non dovevo avere paura del buio.
Camminai verso Bruttoricordo, lentamente, tenendo le mani avanti. Man mano che avanzavo le ombre si dissipavano attorno a me, permettendomi di entrare dentro l’ombra dell’orco.
– Deve trattarsi – pensai – di una bestia davvero enorme per avere un’ombra così grande. Enorme e terrificante! –
Rimasi un po’ sorpresa e un po’ delusa quando, arrivata alla fine, vidi che all’origine dell’ombra c’era solo un bambino smagrito e mal vestito, con una corona luminosa sulla testa che proiettava davanti a lui un alone scuro e denso. Bruttoricordo era quasi più basso di me e, dal brontolio che veniva dalla sua pancia, di certo più affamato.
Provò a spaventarmi ruggendo come fosse un leone, ma io non avevo più paura. Come mi aveva insegnato il Gleeng, lo abbracciai. All’inizio si dimenò un po’, per liberarsi, poi smise e rimase fermo, si stava sistemando comodo nel mio abbraccio e alla fine mi abbracciò a sua volta.
Era una bella sensazione.
Vidi anche una signora, molto bella, con un grande vestito scintillante – credo fosse la Principessa Speranza, poiché adesso portava lei la corona – e ci abbracciava tutti e due.
Non so bene cosa successe dopo; ero fuori dal muro e sentivo la voce di mia madre che gridava il mio nome e la vidi in fondo alla strada, illuminata da un raggio di luna. Diedi una sbirciata dalla breccia: il cortile era molto ben curato, ma non vidi nessuno.
– Chissà dov’è il Gleeng? – mi chiesi mentre correvo tra le braccia della mia mamma.
Ogni tanto mi siedo ancora su quella vecchia sedia a dondolo e guardo la luna fuori dalla finestra, penso a un cortile dimenticato, a un Bruttoricordo che fa paura, ma se abbracciato diventa piccolo e indifeso, e penso al Gleeng. Che riempie i sotterranei polverosi di disegni colorati, che ha la voce di un campanello, che forse non esiste. Poi alzo le mani e le vedo brillare.
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