Riflessioni sulla Vita prima di Tommaso da Celano in merito alle dinamiche socio-famigliari
“Invero, Francesco non è un mito né un personaggio leggendario, benché nel medioevo su di lui siano state scritte molte leggende.”
(Vauchez 2010, p. XV)
Per apprezzare a pieno l’esperienza di San Francesco è necessario considerare il contesto storico e sociale in cui questa si svolge. Questo concetto è piuttosto banale, forse anche ovvio e scontato per ogni personaggio passato a cui si fa riferimento; i santi però hanno la tendenza a fare eccezione. Nello specifico è difficile vedere in Francesco un uomo del suo tempo; un po’ perché suscita particolare simpatia e senso di affinità, un po’ perché il rischio di considerazioni storicistiche è molto elevato quando si fa della sua vita un esempio immediato e perfetto, o si cercano legami forzati col presente, col fine di rendere la sua esperienza comprensibile, accettabile e sotto molti versi condivisibile dai contemporanei. Più facile è vederlo calato in un medioevo emblematico, che riprende nella sua costruzione fantastica tutta l’influenza del messaggio francescano e delle interpretazioni esegetiche che di questo sono state fatte.
Cercando di non cadere nello stesso errore, si può pensare di attuare un procedimento inverso, che non si interessi di come il santo e il suo messaggio abbiano influenzato il suo tempo, quindi con prospettiva necessariamente futura, ma come il suo tempo abbia influenzato lui, il suo messaggio e il modo di proporlo, dinamica questa che coinvolge sia l’uomo, sia le idee.
Bisogna innanzi tutto separare le motivazioni profonde e mistiche che spingono Francesco verso la santità e che rimarranno per sempre celate nell’animo del poverello, dai fatti come ce li riportano i biografi e le strutture culturali in cui si inseriscono.
Le agiografie francescane portano naturalmente quell’influenza culturale di cui si parlava, già sviluppatasi alla luce della vita dell’assisiate, e in parte delle diatribe sorte in merito, ma volendosi occupare solo di un aspetto agiograficamente di minore rilevanza, la famiglia, ci si può permettere di non preoccuparsi di un’eventuale discordanza o inattendibilità delle fonti.
È vero infatti che alcuni gesti riportati possono essere letti alla luce di una simbologia e di una dinamica relazionale che doveva risultare comunque chiara ai contemporanei, almeno in un ceto e in un ambiente di appartenenza omogenei, e che, opinione personale, solo in quanto tali possono essere stati non condivisibili e criticabili. L’accezione rivoluzionaria dell’esperienza di Francesco emerge spesso, seppure incongruente alla luce di un voto, mai venuto meno, di obbedienza, ma viene privata non solo di attrattiva e di funzionalità, nel momento in cui risulta invece una straordinaria coerenza di pensiero e di azione di un Francesco pienamente uomo del suo tempo e del suo mondo. Solo così è possibile percepirne la straordinaria originalità che ne illumina e attualizza il messaggio, che non rifiuta in blocco la cultura che lo ha generato, neanche sotto forma di critica, ma prende atto dei suoi limiti e ne esalta le caratteristiche in positivo e dà un giusto merito alla sua vita concreta e alle scelte, alle vicende con cui Francesco ha dimostrato di volerla mettere in gioco.
Analizzare interamente le biografie del santo sotto questa luce richiederebbe molto tempo, per cui ci si limiterà a ciò che riguarda la famiglia, intesa nel suo senso più stretto di parentela, ma anche nel suo senso più allargato di coinvolgimento della famiglia stessa nelle dinamiche sociali del contesto di appartenenza; usando come linea guida il testo agiografico più vicino cronologicamente al santo stesso, la Vita prima di Tommaso da Celano, e dove necessario gli scritti di Francesco; citando e cercando di commentare i passi estrapolati.
L’arco cronologico interessato è quello che nei testi agiografici presi in considerazione è delimitato dalla presenza di riferimenti testuali alla famiglia naturale di Francesco. Non perché il resto della vita del santo sia priva di riferimenti culturali legati in qualche modo a riflessioni sul
concetto di famiglia, ma non risultano così evidenti se non inseriti in una riflessione generale sulla società, che supera i confini di questo lavoro.
Approssimativamente ci interesseremo quindi agli anni che vanno dal 1181 circa, la nascita di Francesco, al gesto della spoliazione, del 1206.
Questo limite è di aiuto anche nel non considerare Francesco come l’iniziatore di un movimento sorto ex abrupto, bensì come un “contenitore umano”, un catalizzatore di istanze sociali che non “partono” da lui, ma “arrivano” fino a lui. Per quanto Francesco sia indubbiamente “causa”, è forse più interessante vederlo come “conseguenza”, valutando che nello studio della storia, almeno di quella medievale, spesso le cause sono innanzitutto delle conseguenze, così come le signorie possono esser viste non come la rovina dei comuni, ma come una delle tante loro possibili evoluzioni, così gli elementi di rottura di un processo storico spesso generano dal processo stesso.
Tornando alla narrazione della vita di San Francesco, Tommaso da Celano ci informa subito che:
Viveva ad Assisi, nella valle spoletana, un uomo di nome Francesco. Dai genitori ricevette fin dalla infanzia una cattiva educazione, ispirata alle vanità del mondo. Imitando i loro esempi, egli stesso divenne ancor più leggero e vanitoso. (FF 317)
Quello del discredito delle famiglie dei futuri santi è un topos frequente nei testi agiografici. Per ovvi motivi la famiglia in cui nasce un santo rappresenta il suo ancoraggio al mondo secolare e in qualche modo l’alternativa alla donazione completa della propria vita a Dio. La descrizione tendenzialmente negativa delle situazioni e delle stesse relazioni famigliari non è che una manifestazione evidente di un atteggiamento di distacco e di diffidenza nei confronti della famiglia naturale che la Chiesa mantiene, fra alti e bassi, per tutto il medioevo.
Questo non si perde neanche nel basso medioevo: il ritirarsi della morale monastica di indegnità della vita secolare e l’innalzamento della dignità laica,[1] sicuramente portano già i segni della disponibilità ad accogliere le istanze di rivalutazione del mondo materiale di cui saranno portatori gli ordini mendicanti, però l’orientamento della santità è ancora fortemente mistico. Forse per contrapposizione, questo si vede maggiormente nelle biografie dei santi prettamente urbani come Francesco, ricche, come si vedrà, di riferimenti alla nascita, l’infanzia e l’educazione dei bambini e di conseguenza ai genitori.[2]
Anche in Tommaso, queste descrizioni diventano scuse per poter moraleggiare sulla componente laica della Chiesa e l’educazione.
Questa pessima mentalità, infatti, si è diffusa tra coloro che si dicono cristiani: si è fatto strada il sistema funesto, quasi fosse una legge, di educare i propri figli fin dalla culla con eccessiva tolleranza e dissolutezza. (FF 318)
Critica che probabilmente non si rivolge al livello culturale dell’educazione impartita, quanto alla stessa tipologia. Ancora lontani dalla presenza su larga scala delle scuole finanziate a livello comunale o cittadino, alla fine del XII secolo l’istruzione elementare rimane esclusiva dell’alta società, anche in Italia, dove si riscontra una diffusione mediamente più alta che in altre regioni d’Europa. Un’educazione portata avanti da un gran numero di istruttori laici. Grosso modo le stesse figure che nel corso del secolo successivo prenderanno la direzione delle scuole private nelle città, grandi e piccole, e l’onore dell’istruzione personale alle dipendenze dei governi dei borghi rurali.
Un’istruzione di base, attenendoci ad autori più tardi come Bonvesin della Riva, che si articola in maniera molto funzionale e poco speculativa, con una fase iniziale di apprendimento della lettura e una più lungo di pratica della scrittura.
Lo stesso Bonvesin, autore di una Vita scholastica, però ci spinge a riflettere su quanto dice Tommaso a riguardo della “dissolutezza” dei giovani. Nel suo piccolo manuale di vita religiosa e morale, Bonvesin si rivolge proprio ai suoi allievi per spingerli a praticare rettamente le virtù che dovrebbero caratterizzare la vita degli studenti, le cinque “chiavi” per giungere al possesso della sapienza: timor Domini, honor magistri, assiduitas legendi, frequens interrogatio, memoria retinendi. Se ne potrebbe dedurre che i giovani milanesi non facessero esattamente a gara di santità e diligenza, anzi, che fosse opportuno segnalare la loro arroganza, disubbidienza, turbolenza, oziosità ecc., che a volte doveva scadere in comportamenti goliardici e disordini pubblici.[3]
Si sta naturalmente parlando di ragazzi inseriti in un percorso di istruzione superiore, in compenso Tommaso è solerte nel prendere in considerazione ogni passaggio della crescita infantile di un generico ragazzo del suo tempo, attribuendogli il medesimo grado di dissolutezza presupposto da Bonvesin.
Ancora fanciulli, appena cominciano a balbettare qualche sillaba, si insegnano loro con gesti e parole cose vergognose e deprecabili. Sopraggiunto il tempo dello svezzamento, sono spinti non solo a dire, ma anche a fare ciò che è indecente. Nessuno di loro, a quella età, osa comportarsi onestamente, per timore di essere severamente castigato. […]. E si tratta di una testimonianza vera: quanto più i desideri dei parenti sono dannosi ai figli, tanto più essi li seguono volentieri! (FF 318)
Date le premesse, risulta quasi ovvio che crescendo le cose non possano che peggiorare.
Raggiunta un’età un po’ più matura, istintivamente passano a misfatti peggiori, perché da una radice guasta cresce un albero difettoso, e ciò che una volta è degenerato, a stento si può ricondurre al suo giusto stato. E quando varcano la soglia dell’adolescenza, che cosa pensi che diventino? Allora rompono i freni di ogni norma: poiché è permesso fare tutto quello che piace, si abbandonano senza riguardo a una vita depravata.
Facendosi così volutamente schiavi del peccato, trasformano le loro membra in strumenti di iniquità; cancellano in se stessi, nella condotta e nei costumi, ogni segno di fede cristiana. Di cristiano si vantano solo del nome. Spesso gli sventurati millantano colpe peggiori di quelle realmente commesse: hanno paura di essere tanto più derisi quanto più si conservano puri. (FF 319)
Le tematiche somigliano a quelle agostiniane della lotta alla concupiscenza infantile e giovanile, ma nella critica di Tommaso alla fuoriuscita dalla norma e l’ingresso nell’iniquità, è ravvisabile un discorso storico di portata molto ampia che Tommaso tange, senza approfondire, su due piani in apparenza distinti, ma che riconfluiscono nel medesimo movimento sociale.
Il primo piano è proprio quello della norma, della regola e della degenerazione della stessa, in un periodo storico, a cavallo tra XII e XIII secolo, ma più sul versante di quest’ultimo, nel quale la Chiesa cerca di ordinare e regolamentare una morale coniugale cristiana, per inserirla con valore normativo all’interno degli ordinamenti secolari e per sostituire agli stessi riti laici una specifica liturgia matrimoniale. Questo non si limita a portare il rito dalla dimensione casalinga alla dimensione sacramentale dell’edificio ecclesiastico,[4] ma inferisce direttamente anche sull’organizzazione dei gruppi familiari, stringendo ulteriormente i margini di un’azione relazionale cristianamente consentita.
In quest’ottica si inserisce il secondo piano trattato. Anche se non si viene supportati da frasi esplicite, è possibile ravvisare nelle parole di Tommaso un riferimento alle condotte sessuali dei giovani, o meglio, di coloro che appartenevano alla “giovinezza”, i iuvines, maschi non sposati, di età variabile fra i 17 e i 30 anni circa. Condotte non approvate dalla Chiesa alla luce dei suoi sforzi di irreggimentazione sociale, ma che, proprio perché fuori dal contesto coniugale, non venivano giudicate con eccessivo rigore in merito alla loro leicità. La continenza era infatti un problema moralmente attribuibile solo al marito nei confronti della moglie, che non riguardava quindi prettamente il giovane. Le conseguenze andavano dalla semplice esaltazione della virilità come virtù cavalleresca, alle pratiche di prostituzione.[5]
Tutto comunque porta i segni di quelli che anche per la Chiesa furono gli esiti della “rinascita” del XII secolo, tra cui si imponevano la scoperta di un diritto che dall’ambito canonico influenza e determina anche l’ambito civile, le regole di vita e di pensiero che portarono alla nascita del “foro interiore”, una dimensione privata, nascosta e protetta dalle ingerenza della legge e dei magistrati degli ordinamenti secolari, ma indagata da una Chiesa che de occultis non iudicat, ma si sente in diritto di esplorare tutti i confini di questa limitazione, sulla scorta della parole di Paolo, iudicabit Deus occulta hominum (Rom., II, 16).
Il salto tra il vecchio e il nuovo è teatralmente fissato in questa frase.
Ecco i tristi insegnamenti a cui fu iniziato quest’uomo, che noi oggi veneriamo come santo, e che veramente è santo! (FF 320)
Tommaso ritorna quindi a parlare direttamente di Francesco; la critica al mondo dominato da falsi cristiani che istruiscono i figli a bassezze peggiori delle proprie, termina assieme alla narrazione dell’adolescenza del santo, ovvero del periodo in cui le sue azioni sono dettate unicamente dai genitori e quindi non ha sostanzialmente colpa ed è accomunato a tutti i suoi coetanei. Dal momento in cui Francesco si avvicina ai 25 anni, quindi la sua “giovinezza” è al declino, diventa responsabile in prima persona del suo modo di agire, sia in negativo, sia in positivo. Può trattarsi di uno stratagemma utilizzato dall’agiografo per simulare la probabile mancanza di informazioni riguardanti il periodo dell’adolescenza del santo o di un artificio letterario per rendere ancora più evidente il passaggio, la conversione dall’uomo che era al santo che sarà.
Oggetto di meraviglia per tutti, cercava di eccellere sugli altri ovunque e con smisurata ambizione: nei giuochi, nelle raffinatezze, nei bei motti, nei canti, nelle vesti sfarzose e morbide. E veramente era molto ricco ma non avaro, anzi prodigo; non avido di denaro, ma dissipatore; mercante avveduto, ma munificentissimo per vanagloria; di più, era molto cortese, accondiscendente e affabile, sebbene a suo svantaggio. Appunto per questi motivi, molti, votati all’iniquità e cattivi istigatori, si schieravano con lui. Così, circondato da facinorosi, avanzava altero e generoso per le piazze di Babilonia, fino a quando Dio, nella sua bontà, posando il suo sguardo su di lui, non allontanò da lui la sua ira e non mise in bocca al misero il freno della sua lode, perché non perisse del tutto. (FF 320)
Le azioni che coscientemente Tommaso ci presenta in una chiave negativizzata dal fine ultimo della vanagloria, rientrano in realtà in una ricercata adesione agli ideali sociali di derivazione cortese; un modo di essere, di agire, di apparire e di pensare necessari a confermare la propria autorità e funzionali al tentativo costante di elevare il proprio status e quello del proprio gruppo parentale. Francesco è infatti il figlio di un ricco mercante, e il padre, Pietro di Bernardone, non faceva parte ufficialmente dei ranghi della militia di Assisi; ma lui cerca l’identità con il ceto superiore attraverso l’identità dei comportamenti; i suoi compagni lo seguono perché attirati dalle
attività, dai “divertimenti” propri della categoria dei milites di cui fanno parte o a cui anche loro aspirano. Questo nella compagine culturale formalizzatasi attorno alla ritualistica cortese della letteratura cavalleresca, che condiziona un’aristocrazia militare che può provenire dalle fila dei lignaggi nobiliari del contado o dalle ricche famiglie della città.
Vanagloria a parte, quindi, l’autore vuole dare testimonianza degli aspetti fortemente positivi già propri di Francesco anche prima della conversione, ma in questo punto forse soffre l’influenza del fondatore dell’Ordine nel mettere in stretta correlazione virtù cristiane e virtù cavalleresche, visto che lo stesso Francesco nel Testamento ammette di aver vissuto nel peccato[6] prima della conversione, ed è l’unica menzione autobiografica ai suoi anni formativi.
Di sicuro non salva dal suo giudizio negativo i compagni di Francesco. Il fatto che poi lo faccia distaccare nettamente da questi, pur essendone circondato, grazie alle sue qualità, per noi non è di grande interesse. È interessante invece constatare come Francesco fosse inserito all’interno di una delle tipiche strutture associative che caratterizzavano la vita degli iuvines all’interno delle città, con pratiche ludiche, aggregative e trasgressive. In altre biografie di San Francesco, queste pratiche vengono in parte descritte e specificate, vanno però comunque considerate come un aspetto vario e sfuggente nelle forme, nelle tempistiche, nelle specifiche attuazioni, ma non nelle loro motivazioni profonde. Sul piano etnologico le congregazioni giovanili hanno lo scopo di ribadire la forza vitale della gioventù stessa che si oppone al decadere e al susseguirsi dei cicli temporali, ultimo dei quali è la morte. Un modo per esorcizzare la paura del divenire all’interno di un processo spesso statico e di lungo periodo come le associazioni di una specifica classe d’età.
Sul piano pratico, invece, i fatti ci riportano a eventi più crudi, meno necessari e meno edificanti. Giochi violenti, schiamazzi per le strade, aggressioni che sfociano anche in risse e in violenze sessuali, segnano il curriculum di questi ricchi scapoli e non c’è motivo di pensare che Francesco si tirasse indietro e che esagerasse, al termine della sua vita, a vedere il peccato nel suo passato.[7]
In Tommaso però, la constatazione della condotta errata si affianca, se non ne viene del tutto giustificata, dalla considerazione che i movimenti passionali caratterizzano l’età di transito alla vita adulta.
Ecco dunque quest’uomo vivere nel peccato con passione giovanile! (FF 322)
Sul piano sociale, invece, queste motivazioni profonde vanno a scavare proprio nelle dinamiche familiari, che vedono i giovani privi di identità specifica all’interno di un mercato matrimoniale diretto dagli adulti, in cui figurano solo come tasselli di un continuum familiare, consortile o dinastico a seconda dei casi. Si è già parlato di sessualità, ma forse è bene ribadire che lungi dall’essere limitato, come aspetto sociale, al soddisfacimento di istinti, le regole che tramite il matrimonio e la sessualità determinano la trasmissione dei beni, dell’eredità e quindi dell’indipendenza e dell’autorità, rimangono ancora lontane dalla portata dei giovani, saldamente in mano agli adulti.
Cercare una comune risposta alle richieste di adattabilità a queste imposizioni, diventa quindi fine precipuo delle societates iuvines che “hanno lo scopo di garantire la riproduzione, in tutte le sue forme, dell’ordine sociale.” (Maire Vigueur 2004, p. 173).
La Vita prosegue con la narrazione di una malattia di Francesco; evento che nel dolore e nella dimostrazione della caducità dell’esistenza materiale, porta il poverello a una profonda riflessione sul senso della sua vita fino a quel momento; Francesco valuta in modo del tutto nuovo la sua reale adesione ai valori mondani, ma fugge ancora la vera conversione.
Pertanto Francesco cerca ancora di sottrarsi alla mano divina; quasi immemore della correzione paterna [la malattia avuta da poco], arridendogli la fortuna, accarezza pensieri terreni: ignaro del volere di Dio, sogna ancora grandi imprese per la gloria vana del mondo. (FF 324)
Questo passaggio è degno di menzione perché la definizione della malattia di cui sopra come “correzione paterna”, molto dice su quali potessero essere i rapporti tra padri e figli e su quale fosse la visione della figura paterna all’interno della società. Lasciando a livello di supposizione che le menzioni familiari attribuite dai testi agiografici al rapporto dei santi con i misteri divini, siano in qualche modo derivabili per affinità emotiva con le reali dinamiche familiari, ne risulta una figura distante, autoritaria, la cui potestà gli consentiva di correggere duramente, per educare e per punire, forse addirittura il cui volere era di natura assunto a bene per il figlio.
Un’altra riflessione interessante può riguardare la distinzione, qui netta, tra una concezione religiosa della pienezza di vita, rappresentata dal seguire la volontà divina, e la concezione laica, fatta di glorie personali e di conquiste. Le “grandi imprese” fanno pensare, infatti, alle avventure reali dei figli cadetti della nobiltà esaltata nella letteratura cortese, la cui ambizione di trovare il loro ruolo nel mondo e nella società, una volta esclusi dall’eredità paterna, li spingeva a viaggi, battaglie, sottomissioni e corteggiamenti. Lontano, insomma, dall’ideale protratto dalla Chiesa del tempo di ordine sociale, sotto l’egida di una rinnovata etica parentale e dei sacramenti.
Stranamente (o forse no) Tommaso, per descrivere i valori positivi di Francesco, quelli che gli meriterebbero il passaggio di status agognato, continua a utilizzare degli attributi positivi della cultura cavalleresca: generosità e grandezza d’animo.
Un cavaliere di Assisi stava allora organizzando grandi preparativi militari: pieno di ambizioni, per accaparrarsi maggior ricchezza e onore, aveva deciso di condurre le sue truppe fin nelle Puglie. Saputo questo, Francesco, leggero d’animo e molto audace, trattò subito per arruolarsi con lui: gli era inferiore per nobiltà di natali, ma superiore per grandezza d’animo; meno ricco, ma più generoso. (FF 325)
La generosità, la liberalità, in effetti, era alla base dei valori dell’aristocrazia reale, non solo della nobiltà letteraria. Il prestigio e l’autorità del signore o di un aspirante tale, dipendevano a livello d’immagine pubblica, da quanta munificenza riuscissero a dimostrare verso i sottoposti e i loro beneficiari, quanto questi fossero soddisfatti nei bisogni primari e negli svaghi.[8]
Da qui la necessità per Francesco di rifiutare alcuni valori del suo ambiente di nascita, quello mercantesco, quindi la mira di guadagni, la produttività, il risparmio, l’accumulo, per far propri i valori dei nobili che gli imponevano di sperperare e donare senza rimorsi e imponevano al padre di finanziare tali pratiche.
Per capire però quale fosse l’interesse di Francesco e, presumibilmente, della sua famiglia nel seguire le gesta guerresche fino in Puglia, bisogna considerare che per essere considerato dai milites un loro pari, si poteva seguire la strada probabilmente seguita da Pietro di Bernardone, di far assimilare prima a livello culturale poi a livello sociale i propri figli con i figli dei milites fino a erodere le differenze, anche sul piano pratico, nel giro di poche generazioni, ma un’altra strada, sempre valida per quanto difficile, era quella dell’investitura.
Francesco poteva aspirare a tanto perché la sua famiglia apparteneva alla classe facoltosa del popolo di Assisi; il solo proposito di partire per una spedizione armata in Puglia ci autorizza a pensare che avesse ricevuto un addestramento militare che lo rendeva atto a combattere a cavallo. Oltralpe questa pratica era una prerogativa che distingueva nettamente i milites nobili, dai pedites non nobili. La famiglia di Bernardone si trova al punto di contatto tra i due gruppi sociali per ambiente e aspirazioni familiari e personali, inoltre un passo ben noto di Ottone di Frisinga forse spiega perché le sue speranze non fossero del tutto vane.
Inoltre, affinché non manchi loro la forza per tenere a bada i vicini, non disdegnano di far cavalieri e di assumere ai diversi gradi delle cariche giovani di condizione inferiore e qualsiasi tipo di artigiano, persino quelli delle spregevoli arti meccaniche, che tutti gli altri popoli tengono lontani come peste dalle occupazioni più onorate e libere.[9]
Questa cerimonia, almeno così la si intende in Francia nel medesimo periodo, consisteva nella consegna di una dignità cavalleresca da parte di un nobile. Una realtà di stampo feudale che non stona affatto in un ambiente cittadino dove l’alta borghesia sognava ancora di identificarsi con la nobiltà che aveva contribuito essa stessa a far decadere. Di sicuro si trattava di un evento eccezionale per rarità, riservato ai personaggi di maggior rilievo del contesto urbano e comunque attuabile di preferenza attraverso il servizio militare.[10] La scelta di andare a combattere in Puglia vuole soddisfare una voglia di “avventure” o è frutto di un piano pragmatico di innalzamento sociale del proprio lignaggio consortile?
Francesco in Puglia non ci andrà, colto per strada da un sogno mistico che lo spinge a desistere, mostrandogli ambiguamente un palazzo riccamente allestito con armamenti vari.
E mentre era non poco sorpreso davanti all’avvenimento inaspettato, si sente dire: “Tutte queste armi sono per te e i tuoi soldati ” (FF 326)
Il linguaggio della metafora è di tipo militare; per poter essere colto da un simile messaggio deve trattarsi di un linguaggio familiare a Francesco, un sistema di comunicazione di cui è in grado di decodificare i simboli, perché vi è stato istruito; dalla societas iuvines a cui appartiene, sicuramente, ma in primo luogo all’interno della famiglia, che evidentemente pianifica attraverso Francesco il passaggio di livello sociale.
Sempre per conformarsi al sistema di valori di cui è intriso, Francesco e la sua compagnia, si riferiscono alla mancata spedizione militare, sempre in termini di acquisizioni personali e conquiste sociali.
Diceva di rinunciare a partire per le Puglie, ma allo scopo di compiere magnanime imprese nella sua patria. Gli amici pensavano che avesse deciso di maritarsi e gli domandavano: “Vuoi forse prendere moglie, Francesco? “
Egli rispondeva: “Prenderò la sposa più nobile e bella che abbiate mai vista, superiore a tutte le altre in bellezza e sapienza”. (FF 331)
Quello che può sembrare un semplice scambio di battute si dimostra invece molto efficace nell’evidenziare come, anche nella cultura cittadina, non solo nella nobiltà rurale soggetta a rigidi codici di trasmissione ereditaria, il passaggio all’età adulta, tramite il matrimonio, rappresenti una linea di demarcazione definitiva. Il tema è quello letterario dello scapolo che passa la giovinezza fra mille avventure per cercare la donna giusta da sposare e quando ha deciso di sposarsi non ha più bisogno di avventure, e il modello è quello dei poemi cavallereschi come Aymeri de Narbonne. Anche Aymeri dopo l’ennesima avventura, quella definitiva, quella che gli ha dato una patria e un patrimonio, la conquista della città di Narbona ai Saraceni, agogna ancora di avere una sposa, cioè un’identità familiare che lo veda come senior. Si innamora, senza averla mai vista, della descrizione di Ermengarda, sorella de re dei Lombardi Bonifacio. Anche in questo caso la liberalità, il disinteresse per le ricchezze materiali, l’attitudine allo sperpero come atto di magnificenza, risultano caratteristiche fondamentali della vicenda, nel momento in cui i messi che Aymeri invia a Pavia devono conquistare al loro signore il rispetto di Bonifacio attraverso il potlach, la dissipazione quasi rituale delle ricchezze, che gli consente così di sposare la sorella del re.[11]
La situazione di Francesco esce dalla realtà ovattata della letteratura e le sue stesse parole ci calano in dinamiche sociali quanto mai concrete: tralasciando l’ispirazione divina che darà successivamente un significato diverso alla sua frase di risposta, sta chiaramente esprimendo la sua volontà di ipergamia. Perfettamente coerente agli ideali che spingevano la sua famiglia e lui stesso verso un salto di classe ufficialmente definito, Francesco sogna di sposare una donna nobile, cioè di una classe sociale superiore alla propria, utilizzando così il matrimonio come strumento di assestamento sociale definitivo e di uscita dall’insoddisfazione derivatagli dall’appartenenza al ceto mercantile.[12]
Ma oltre ai suoi sogni, cosa lo spingeva a poter prendere in considerazione questa ipotesi tanto ottimistica?
Senza andare a scandagliare nel dettaglio la storia di Assisi, è comunque necessario comprendere il clima di grandi trasformazioni che stava vivendo come realtà comunale. Quando Francesco aveva circa sedici anni, il popolo di Assisi, ricchi mercanti e artigiani, quindi probabilmente anche lui e i suoi familiari, avevano reagito alla morte dell’imperatore Enrico VI (+1197) arroccandosi in difesa di chi sperava di poter mettere le mani sulla cittadina Umbra; da una parte era stata scacciata la guarnigione del Duca di Spoleto, dall’altra era stata distrutta la Rocca, punto nodale di controllo della regione su cui stavano allungandosi le mani del papa Innocenzo III. Per la loro affinità col potere che cercava di opprimerli, gli uomini del popolo occupano anche gli edifici simbolo del potere aristocratico, ad Assisi in mano a una ventina di famiglie di casta militare, i boni homines.[13]
Il nuovo cavaliere di Cristo si avvicina alla chiesa, e vedendola in quella miseranda condizione, si sente stringere il cuore. Vi entra con timore riverenziale e, incontrandovi un povero sacerdote, con grande fede gli bacia le mani consacrate, gli offre il denaro che reca con sé e gli manifesta i suoi proponimenti. Stupito per l’improvvisa conversione, il sacerdote quasi non crede a quanto odono le sue orecchie e ricusa di prendere quei soldi, temendo una burla. Infatti lo avevano visto, per così dire, il giorno innanzi a far baldoria tra parenti e amici, superando tutti nella stoltezza. Ma Francesco insiste e lo supplica ripetutamente di credere alle sue parole, e lo prega di accoglierlo con lui a servire il Signore. E finalmente il sacerdote gli permette di rimanere con lui, pur persistendo nel rifiuto del denaro, per paura dei parenti. (FF 335)
Nell’affermare che la fama di Francesco lo vedeva protagonista di festeggiamenti assieme non solo agli amici, ma anche ai parenti, Tommaso incoraggia la supposizione che l’appartenenza ai modelli comportamentali tipici delle societas iuvines di milites era perseguita da tutta la famiglia allargata di Pietro di Bernardone. Oltre a ciò fornisce una prima stima dei rapporti stretti che potessero vigere all’interno di un lignaggio, probabilmente consortile, tra cugini e membri della stessa generazione.
Un’altra considerazione, invece, riguarda la già menzionata insofferenza di Francesco non solo verso il suo status, ma anche verso le imposizioni familiari, visto che prova a utilizzare del denaro del padre, andando evidentemente contro una disposizione legislativa che non consentiva ai giovani di disporre dei beni familiari fino al raggiungimento dell’autonomia, il matrimonio o l’uscita dalla casa del padre.
Mentre il servo dell’Altissimo. viveva in quel luogo, suo padre andava cercando ovunque, come un diligente esploratore, notizie del figlio. Appena venne a conoscenza che Francesco dimorava in quel luogo e viveva in quella maniera, profondamente addolorato e colpito dal fatto inatteso, radunò vicini e amici e corse senza indugio dal servo di Dio. (FF 336)
Pietro è di fronte a una situazione imbarazzante: il suo steso figlio si sottrae alla sua autorità e alla convivenza civica. Questo figlio indisponente lo mette in imbarazzo non solo di fronte alla città, ma soprattutto di fronte ai quei cittadini con cui ha degli interessi, con cui condivide un territorio urbano, con cui ha affari commerciali e politici, i parenti, i vicini, gli amici, i soci. Non solo mette in imbarazzo la stessa vicinia a cui appartiene, ma è pietra dello scandalo soprattutto per il lignaggio che progettava di innalzare ai vertici della società. Non perché abbia in qualche modo rinnegato le attività e i costumi laici del suo ambiente, ma anche perché si trova, a questo punto della sua storia, ancora lontano da una scelta che potesse essere considerata un’alternativa di vita per i suoi contemporanei; ovvero, il francescanesimo e l’ordine francescano, per ovvi motivi, ancora non esistevano e il poverello non sembrava intenzionato a inserirsi nei quadri istituzionali della Chiesa, né a prendere i voti monastici.
Il figlio di Bernardone decide perciò di indire un consilium; in quanto senior richiede la presenza fisica di tutti i vicini per ascoltare i loro consilia, pareri e proposte, a riguardo di Francesco.
Il poverello sfugge al tentativo violento ordito dal padre per riportarlo a casa nascondendosi in una buca predisposta allo scopo.
In quella fossa, che era sotto la casa. ed era nota forse ad uno solo, rimase nascosto per un mese intero non osando uscire che per stretta necessità. Mangiava nel buio del suo antro il cibo che di tanto in tanto gli veniva offerto, e ogni aiuto gli era dato nascostamente. (FF 336)
A proposito del consilium non viene menzionata esplicitamente alcuna donna, e viene da pensare che in questo caso non ci sia stata alcuna consultazione femminile. A puro titolo speculativo possiamo però farci delle domande. Chi avvertì Francesco che stavano andando a prenderlo? Chi gli portava da mangiare nel suo rifugio, mantenendo segreta la sua presenza lì?
Sicuramente qualcuno abbastanza addentro le decisioni familiari, a conoscenza di quanto deliberato durante il consilium, o comunque in possesso di informazioni precise riguardo gli spostamenti degli uomini della famiglia. Sembra plausibile a questo punto pensare alla madre di Francesco. Non sarebbe strano vedere una madre schierarsi apertamente dalla parte dei figli (si pensi a Eleonora d’Aquitania e i figli di Enrico II), tanto meno una madre che assiste in segreto un figlio preoccupandosi del suo benessere e delle sue necessità. La società dei secoli XII e XIII vede intensificarsi i dissapori e i conflitti generazionali fra i maschi delle famiglie altolocate, soprattutto a causa di una notevole differenza di età, data la frequenza di matrimoni tra donne relativamente giovani e uomini maturi, ma anche a causa di un riassetto delle dinamiche ereditarie che vedeva gli anziani confermare il proprio controllo sul potere e sulle proprietà.
In questa realtà familiare la moglie, la madre, assume il ruolo fondamentale di mediatrice fra le due generazioni maschili, da un lato perché spesso di età mediana, dall’altro perché fisicamente più coinvolta nella crescita dei figli rispetto al padre, per tutto quanto riguarda lo svezzamento, l’educazione religiosa e il governo della casa.[14]
Quando Francesco decide di affrontare i suoi familiari ed esce dal suo rifugio, riaffacciandosi in città, subito viene additato come matto, come fuori dal consorzio civile che lo ha generato. I suoi concittadini lo insultano, gli urlano frasi offensive e derisorie, manifestando in tali modi la loro distanza da quell’uomo, che, rifiutandosi di sottostare alle norme prima di tutto familiari, quindi
civiche, rinuncia a essere cittadino, a godere della difesa delle leggi della moralità civile, rinuncia alla sua identità, macchiandosi di infamia.
Quel vociare rumoroso e canzonatorio attorno a lui si diffondeva sempre di più per le vie e le piazze della città e il clamore degli scherzi rimbalzava di qua e di là toccando le orecchie di molti, finché giunse anche a quelle di suo padre. Questi, udito gridare il nome del figlio e saputo che proprio contro di lui era diretto il dileggio dei cittadini, subito andò da Francesco, non per liberarlo, ma per rovinarlo
Come il lupo assale la pecora, senza più alcun ritegno, con sguardo truce e minaccioso, afferrandolo con le mani, lo trascinò a casa. E, inaccessibile ad ogni senso di pietà, lo tenne prigioniero per più giorni in un ambiente oscuro, cercando di piegarlo alla sua volontà, prima con parole, poi con percosse e catene. (FF 339)
Pietro non vuole salvare Francesco dal pubblico dileggio, vuole rovinarlo. L’espressione è forte se applicata a un padre di famiglia, ma bisogna tenere conto quale importanza avesse nella società dell’epoca la fama, la reputazione, a maggior ragione dopo aver investito e sperperato tante ricchezze per acquistare con la generosità del figlio, il rispetto dei pari e dei superiori. Francesco tradisce le aspettative del padre e del suo lignaggio rispetto agli ideali di scalata sociale che fino ad allora avevano condiviso[15], per cui nella mente di Pietro merita quanto gli sta accadendo, anzi, l’unico modo che ha per cercare di non rovinare del tutto quanto costruito fino a quel momento è cercare di unirsi lui stesso ai cori di condanna distaccandosi, sempre palesemente, dal comportamento del figlio.
Nonostante la coerenza delle azioni del ricco mercante, non bisogna dimenticarsi che si sta leggendo un’agiografia, per cui alcune costruzioni di vicende sono, se non stereotipate sicuramente tipiche; una di queste è la voce del sangue che entra in competizione con il richiamo di Dio.
Cioè il comportamento di Pietro in questo caso risponde anche alla necessità di una figura negativa che incarni il mondo secolare da contrapporre alla riflessione mistica di Francesco, qui all’estremo confine decisionale tra il reintegro nei ranghi del secolo e la donazione totale a Dio.
E di poi stetti un po’ e uscii dal mondo. (FF 110)
Questa breve frase tratta dal Testamento di San Francesco riassume proprio le ultime fasi della sua irresolutezza, che lo vede ancora legato sentimentalmente alla propria famiglia di origine e ancora influenzato dal timore dell’autorità paterna.[16] In quel momento, però, gli era già chiaro che avrebbe dovuto rinunciare alla sua quotidianità urbana, che la città lo rifiutava e avrebbe dovuto rifiutarla a sua volta; non come luogo o come popolazione, ma diffamandosi con le sue azioni agli occhi dell’opinione pubblica. Lasciare il mondo, il mondo cittadino, quello conosciuto e apprezzato da Francesco, significava rinunciare all’agiatezza, alle sicurezze e alla stessa organizzazione di una vita normale, dove il padre e il lignaggio non lo comprendevano, anzi lo allontanavano e la madre non poteva supportarlo oltre.[17]
A questo punto bisogna evitare di cadere nel gioco diretto da Tommaso, vedendo il nucleo familiare in generale e nello specifico quello di Francesco, come diviso fra buoni e cattivi, come privo di sentimenti sinceri e affettivamente sterile. Le stesse descrizioni agiografiche delle esperienze mistiche coeve ci danno infatti la misura di questi sentimenti, tramite una simbologia ricalcata sulle esperienze familiari reali della sponsalità, della maternità, dell’infanzia e così via.
Paralleli che con molta probabilità avevano fondamento proprio nei legami familiari concreti e nei sentimenti in essi contenuti.[18]
Tornando alle azioni di Pietro, il tentativo di Tommaso di mostrare l’opposizione tra la patria potestas terrena e la paternità celeste, è funzionale anche come descrizione delle possibilità di questa stessa potestas. Il padre può imporre la sua volontà sul figlio anche con metodi violenti, come la reclusione e le percosse. Sicuramente l’eccezionalità del caso può averlo portato a decisioni e conseguenze estreme, però un brano successivo ci dà maggiori informazioni sulle reazioni suscitate.
Affari urgenti costrinsero il padre ad assentarsi per un po’ di tempo da casa, e il servo di Dio rimase legato nel suo sgabuzzino. Allora la madre, essendo rimasta sola con lui, disapprovando il metodo del marito, parlò con tenerezza al figlio, ma s’accorse che niente poteva dissuaderlo dalla sua scelta. E l’amore materno fu più forte di lei stessa: ne sciolse i legami, lasciandolo in libertà. (FF 341)
L’azione coercitiva su Francesco continua, non sappiamo per quanto tempo, ma quando Pietro deve allontanarsi gli sembra logico che continui a opera della sua casa, dei suoi familiari. Questo non solo ci fa pensare che ci fosse alcuna riprova della società per quanto stava facendo, ma anche che potesse trattarsi di una pratica attuata non troppo raramente sui figli ribelli.
La madre, però, che come si è già visto era molto legata al figlio, si oppone alla potestas maritale, da prima modificando il metodo attuativo, passando dalla coercizione al convincimento, poi facendo venire meno gli sforzi ottemperati da Pietro, liberando Francesco. Assume chiaramente la Prima funzione che Dumezil attribuisce ai personaggi letterari, quella di consiglio, preghiera e azione positiva. Questa funzione comprende però anche la sovranità in tutte le sue varie manifestazioni.[19]
Sarebbe limitativo, infatti, pensare che donna Pica abbia voluto ribellarsi al marito oppressore in una sorta di anacronistica imposizione di genere, è più coerente invece prendere in considerazione la possibilità che all’interno della struttura del governo familiare, la moglie di Pietro abbia svolto una funzione di tipo matronale, con una rete di comando e interesse parallela a quella maschile, che le avrebbe consentito di prendere decisioni; decisioni autonome anche se, come si legge di seguito, non prive di conseguenze all’interno di una famiglia nucleare che, in generale, si imposta, vede e vuole sé stessa sempre più in chiave agnatizia.
Frattanto il padre rincasa e non trovandolo, accumulando peccati su peccati, tempesta di rimproveri la moglie. Poi furente e imprecante, corre da Francesco a San Damiano, nel tentativo di almeno allontanarlo dalla regione, se non gli riesce di piegarlo a ritornare alla sua vita precedente. (FF 342)
Le azioni della moglie sono causa di disaccordi e di un’ennesima imposizione di forza da parte del marito, ma, a parte deprecare l’aggressione verbale di Pietro, Tommaso non ci informa del piano dialogico su cui si pose la discussione, ovvero su quale livello fosse la sottomissione della donna all’uomo. Sappiamo però che Pietro continua in proprio la persecuzione del suo intento, spostando la mira sulla soluzione più immediata per risolvere il suo problema di immagine: far allontanare Francesco, portare lo scandalo oltre i limiti della fama territoriale più prossima.
Non riuscendovi tenta di rendere evidente a tutti l’estromissione del ribelle dalla società familiare.
Allora il padre, visto vano ogni sforzo per distoglierlo dal nuovo cammino, rivolge tutto il suo interesse a farsi restituire il denaro.
Il ricupero della somma placò in parte come un refrigerio l’ira e l’avidità del padre.
Tuttavia impose al figlio di seguirlo davanti al vescovo della città, perché facesse nelle mani del prelato la rinuncia e la restituzione completa di quanto possedeva. (FF 343)
Il modo migliore per farlo è privarlo del suo diritto di figlio alla spartizione dei beni paterni; la restituzione del denaro è la restituzione del diritto all’eredità e non a caso vuole che si faccia in chiave pubblica. La Leggenda dei Tre Compagni ci dice che Pietro prima si rivolse ai Consoli per ottenere giustizia, ma che essendosi posto sotto la tutela della Chiesa, l’autorità competente in merito era il vescovo. Tommaso non fa questa premessa, ma ai nostri fini più che la procedura legislativa è importante osservare la ricerca di una situazione pubblica, laica o ecclesiastica, che potesse centrare l’attenzione dell’intera comunità; un gesto che non ha solo un sapore marcatamente rituale, ma che sottende a una vera e propria necessità di memorizzazione. Un evento pubblico che affida alla memoria di molti, della comunità, il suo forte significato. Fallito il suo tentativo di riaddomesticazione del figlio, Pietro non può più limitare alla vicinia il suo disappunto: deve essere l’ufficialità dell’assemblea a sancire definitivamente uno stato di fatto e a serbarne il ricordo, in caso di future pretese o reinterpretazioni da parte di Francesco o altri.
Francesco non solo sta al gioco, ma conscio dei meccanismi scatenati dal processo simbolico e mnemonico iniziato dal padre, fa proprio il momento per enfatizzare ancora di più l’autonomia, la libera scelta del suo gesto, fino a insinuare tramite lo scandalo il dubbio di una realtà misteriosa dietro le sue stramberie.
Comparso davanti al vescovo, Francesco non esita. né indugia per nessun motivo: senza dire o aspettar parole, si toglie tutte le vesti e le getta tra le braccia di suo padre, restando nudo di fronte a tutti. Il vescovo, colpito da tanto coraggio e ammirandone il fervore e la risolutezza d’animo, immediatamente si alza, lo abbraccia e lo copre col suo stesso manto. Comprese chiaramente di essere testimone di un atto ispirato da Dio al suo servo, carico di un significato misterioso. Perciò da quel momento egli si costituì suo aiuto, protettore e conforto, avvolgendolo con sentimento di grande amore. (FF 344)
Per Francesco, che si era adoperato nella sua giovinezza per assumere rango di cavaliere, la spoliazione assume i connotati di una cerimonia di investitura feudale invertita, dove non riceve per ottenere la libertà, bensì restituisce.
Come i riti di vassallaggio conosciuti, anche questo episodio consta di due elementi simbolici per eccellenza: un gesto dal significato codificato e noto e un oggetto simbolico. Tenendo fede a quanto scritto nella Leggenda dei Tre Compagni, si può aggiungere anche il terzo, la parola.
Sempre del rituale feudo-vassallatico sono presenti altri elementi identificativi, come la solennità dell’atto, la presenza dei testimoni, il ruolo di un superiore, e non meno la “sostanza”, in questo caso del contendere, non della fedeltà, legata alla trasmissione di un patrimonio, l’appartenenza a una classe, a una famiglia. Francesco attua in forma esplicita la pratica, il rituale dell’exfestucatio, cioè il ripudio del suo dominus. Si comporta come un vassallo che effettua il lancio simbolico della festuca, il simbolo del potere e dell’obbligo che viene deferito al vassallo, in questo caso ben rappresentato dalle vesti, elemento cardine di divisione tra le classi di censo all’interno della società basso-medievale.[20]
Francesco non aveva solo interrotto i suoi legami parentali con quel gesto simbolico, ma mettendosi sotto la protezione del Vescovo aveva rotto anche col comune di Assisi, rinunciando al particolare statuto e alle garanzie di diritti che privilegiavano i cittadini rispetto agli abitanti del contado.[21]
Con ciò hanno termine le menzioni dirette alla famiglia naturale di Francesco contenute nella
Vita prima. Può però essere interessante prendere in esame un ultimo estratto.
Finalmente arriva ad un monastero, dove rimane parecchi giorni a far da sguattero di cucina. Per vestirsi ha un semplice camiciotto e chiede per cibarsi almeno un po’ di brodo; ma non trovando pietà e neppure qualche vecchio abito, riparte, non per sdegno, ma per necessità, e si porta nella città di Gubbio. Qui da un vecchio amico riceve in dono una povera tonaca. (FF 347)
La rete dei legami familiari allargati, nonostante tutto, è ancora attiva e funzionale. Un vecchio amico, un amico di famiglia possiamo supporre, essendo Francesco ancora un giovane con una limitata esperienza personale, lo accoglie e lo veste nel momento del bisogno. La situazione è simile, sul piano reale e su quello allegorico, a quella di molti milites, che sconfitti e banditi dalla propria città o rimasti privi di averi sufficienti a mantenere il proprio status, a causa magari di un riscatto salato, trovano rifugio da propri pari, compagni di fazione o di battaglie.
La storia di Francesco prosegue sotto il segno di una “nuova” famiglia, la fraternità; il modello laico di convivenza che continuerà a preferire ai modelli di istituzione religiosa, anche dopo che la sua esperienza avrà dato vita a un Ordine vero e proprio. Il suo attaccamento ai valori e ai sentimenti del nucleo domestico non sembra venire mai meno e parlando a tutti i fedeli[22] utilizza proprio una metafora parentale per descrivere la bellezza della relazione con Cristo.
Siamo sposi, quando l’anima fedele si congiunge a Gesù Cristo per l’azione dello Spirito Santo. E siamo fratelli, quando facciamo la volontà del Padre suo, che è in cielo. Siamo madri, quando lo portiamo nel nostro cuore e nel nostro corpo attraverso l’amore e la pura e sincera coscienza, e lo generiamo attraverso il santo operare, che deve risplendere in esempio per gli altri. (FF 200)
BIBLIOGRAFIA
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Caroli 2004 = Ernesto Caroli ( a cura di), Fonti francescane: scritti e biografie di san Francesco d’Assisi, cronache e altre testimonianze del primo secolo francescano, scritti e biografie di santa Chiara d’Assisi, testi normativi dell’Ordine Francescano Secolare – Nuova ed., Editrici francescane, Padova, 2004.
Duby 1988 = Georges Duby, Medioevo maschio: amore e matrimonio, Laterza, Roma, 1988.
Fassò 1997 = Andrea Fassò, La «chanson de geste» in Mario Mancini (a cura di ), La letteratura francese medievale, Il Mulino, Bologna, 1997.
Frugoni 2001 = Chiara Frugoni, Vita di un uomo: Francesco d’Assisi, Einaudi, Torino, 2001. Herlihy 1989 = David Herlihy, La famiglia nel Medioevo, Laterza, Roma-Bari, 1989.
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Leverotti 2005 = Franca Leverotti, Famiglia e istituzioni nel Medioevo italiano: dal tardo antico al Rinascimento, Carocci, Roma, 2005.
Maire Vigueur 2004 = Jean-Claude Maire Vigueur, Cavalieri e cittadini: guerra, conflitti e società nell’Italia comunale, Il Mulino, Bologna, 2004.
Menant 2011 = François Menant, L’Italia dei comuni (1100-1350), Viella, Roma, 2011.
Todeschini 2007 = Giacomo Todeschini, Visibilmente crudeli: malviventi, persone sospette e gente qualunque dal Medioevo all’età moderna, Il Mulino, Bologna, 2007.
Vauchez 2010 = André Vauchez, Francesco d’Assisi: tra storia e memoria, Giulio Einaudi editore, Torino, 2010.
[1] Si ricordi la santificazione del mercante laniero Omobono Tucenghi da Cremona, nel 1199, il primo santo laico della storia.
[2] Herlihy 1989, p. 148.
[3] Menant 2011, p. 211.
[4] Duby 1989, pp. 19-21.
[5] Duby 1989, p. 12.
[6] Dominus ita dedit mihi fratri Francisco incipere faciendi poenitentiiam: quia, cum essem in peccatis, nimis mihi videbatur amarum videre leprosos […]. (FF 110)
[7] Vauchez 2010, p. 18.
[8] Duby 1989, p. 183.
[9] OTTONIS FRISINGENSIS Gesta Friderici imperatoris, libro II, cap. 13: Ut etiam ad comprimendos vicinos materia non careat, inferioris conditionis iuvenes vel quoslibet contemptibilium etiam mechanicarum artium opifices, quos caeterae gentes ab honestioribus et liberioribus studiis tanquam pestem propellunt, ad militiae cingulum vel dignitatum gradus assumere non dedignantur.
[10] Maire Vigueur 2004, p. 378.
[11] Fassò 1997, p. 76.
[12] Frugoni 2001, p. 20.
[13] Vauchez 2010, p. 13.
[14] Herlihy 1989, pp.155-156.
[15] Frugoni 2001, p. 27.
[16] Frugoni 2001, p. 26.
[17] Vauchez 2010, p. 29.
[18] Herlihy 1989, pp. 148-149.
[19] Fassò 1997, p. 68.
[20] Le Goff 2003, pp. 57-59.
[21] Vauchez 2010, p. 30.
[22] Lettera a tutti i fedeli (Recensione Seconda).
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